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Perché il Bahrein manda un ambasciatore in Siria

A Damasco vanno in scena le nuove relazioni regionali mediorientali. Gli Stati del Golfo cercano di tessere relazioni con la Siria per erodere l’influenza iraniana sul regime di Assad

Impensabile fino a un po’ di tempo fa, ma un nuovo ambasciatore del Bahrein ha preso formalmente servizio in Siria domenica 19 giugno. È la prima missione completa del Paese in oltre un decennio — Manama aveva riaperto la sede diplomatica nel 2018, ma era guidata da un incaricato di affari, dandole minore valore e ufficialità.

Damasco continua a migliorare le sue relazioni con gli Stati arabi del Golfo. Il Medio Oriente segue un processo di cambiamento profondo, che tocca le visioni politiche e le società, e che si orienta verso un tentativo di distensione inter-regionale.

Il rais siriano Bashar Assad ha vinto la guerra civile che dura da oltre dieci anni: ci sono stati migliaia di morti, c’è stato l’innesco dell’uso della disinformazione come arma comune (quotidiana) su Internet, c’è stato l’ingresso in guerra della Russia che si è mossa sfruttando alcune indecisioni occidentali.

Il regime di Damasco ha accolto con una cerimonia ufficiale l’ambasciatore Waheed Mubarak Sayyar che ha presentato le credenziali ad Assad. Il presidente siriano, insomma, si sta gradualmente reintegrando nell’accettazione del mainstream regionale. Ha trovato i suoi spazi.

Spazi che peraltro gli sono stati concessi. La sua visita negli Emirati Arabi Uniti a marzo è stato il primo viaggio di questo genere dopo la guerra, in cui gli Stati del Golfo avevano lavorato per fornire vari tipi di assistenza alle opposizioni.

Adesso però è il momento del pragmatismo. Abu Dhabi guida la riapertura dei rapporti, mentre la nomina della feluca baherenita ha un valore aggiunto per i legami che il Paese ha con l’Arabia Saudita (di cui spesso svolge il ruolo di segreteria informale, quando Riad non vuole esporsi troppo su specifici dossier).

All’inizio del conflitto siriano, Stati arabi come l’Arabia Saudita e il Qatar si erano affrettati a sostenere i combattenti sunniti contro le forze di Assad. I Paesi arabi avevano sanzionato Damasco e condannato l’uso della forza militare contro i civili. Dopo lo scoppio del conflitto, la Siria era inoltre stata espulsa dalla Lega Araba, che conta 22 membri, e boicottata dai suoi vicini.

Ora ci sono certamente i miliardi della ricostruzione, ma soprattutto c’è da contrastare l’Iran. La maggior parte dei Paesi del Golfo cerca di stringere legami più stretti con Damasco sperando di allontanarla dall’influenza di Teheran. L’Iran, tradizionale alleato della Siria, ha inviato consiglieri e risorse per puntellare Assad durante il conflitto scoppiato nel marzo 2011.

Il rais senza la tecnica russa e la carne da cannone iraniana (fornita attraverso la mobilitazione delle milizie sciite) non si sarebbe salvato. Gli iraniani sono stati spietati, settari contro i ribelli sunniti. Hanno violato ogni genere di diritto e convenzione, ma hanno salvato il regime di Damasco e ora presentano il conto: sostanzialmente, l’aumento dell’influenza nel Paese.

Per il Golfo è un problema moltiplicato perché rappresenta una preoccupazione anche per il nuovo grande alleato delle monarchie sunnite, Israele. Se da Gerusalemme partono i caccia che colpiscono le milizie sciite in Siria, da Abu Dhabi o da Manama partono iniziative diplomatiche ed economiche che mirano non tanto a sganciare Damasco da Teheran, ma quanto meno a togliere la Siria dall’isolamento che rende quella relazione con la Repubblica islamica esclusiva.

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