Quattro anni fa la conferenza alla Link Campus che ha presentato Luigi Di Maio al palazzo, oggi lo strappo con il Movimento sull’euroatlantismo. Parla l’ex Dc Scotti, allora al suo fianco: solo chi non vuole vedere parla di incoerenza
L’Italia “deve restare” nella Nato e l’Europa “è la sua casa naturale”. Parola di Luigi Di Maio. Non dall’hotel Bernini Bristol, il 21 giugno 2022, ma dall’università Link Campus, il 6 febbraio del 2018. Chi si stupisce della parabola atlantista e moderata che ha portato il ministro degli Esteri a tagliare il cordone ombelicale con il Movimento Cinque Stelle “è solo stato distratto”.
Vincenzo Scotti trattiene a stento un sorriso. Dc della prima ora, ministro dell’Interno e degli Esteri, è stato fondatore e presidente dell’università che, un mese prima del trionfo gialloverde alle urne, ha ospitato il manifesto della politica estera grillina e forgiato alcuni protagonisti del primo Movimento di governo, da Angelo Tofalo a Elisabetta Trenta.
Su quella conferenza programmatica di Di Maio all’ombra delle mura vaticane – in sala presente, tra ambasciatori e 007, l’allora segretaria generale della Farnesina Elisabetta Belloni, oggi direttrice del Dis – la stampa italiana ha montato una panna di retroscena e polemiche, facendo di Scotti (a sua insaputa) il padre putativo della svolta governista di Di Maio&Co.
Oggi l’ex ministro ci ride su. Perché a riascoltare quel vecchio exploit Di Maio, prima fila del “partito di Draghi” e della schiera atlantista nella maggioranza, crolla il mito di una conversione pilotata o improvvisa. “Disse che l’atlantismo italiano si esprime nel patto atlantico – dice Scotti a Formiche.net – ricordò che la forza di una politica estera dipende dalla continuità e dalla credibilità. Per un Cinque Stelle a quell’epoca non era scontato”.
A nessuno dei presenti in sala sfuggì il repertorio autenticamente grillino riaffiorato a tratti nella presentazione di Di Maio al “palazzo”. L’attenzione al principio di “non-ingerenza”, gli strali contro la Nato in Libia, il proposito di mantenere buoni rapporti con Russia e Cina. Un repertorio che è rimasto a lungo nel taschino di Di Maio, costretto a vestire i doppi panni di ministro e di capo politico di una comunità che sul non-allineamento e un filo di antiamericanismo – oggi presidiati da Alessandro Di Battista e i fuoriusciti – ha scommesso dalla prima ora.
Sciolta la cravatta di capo partito Di Maio si è liberato di un vestito che gli è sempre stato stretto. Quello alla Link, ricorda Scotti, “fu un discorso di realismo machiavellico”. “Non per opportunismo ma per una fondamentale presa di coscienza: non bisogna fare i conti con le repubbliche possibili o mai esistite ma con quelle che esistono qui ed oggi. Un discorso, allora, da presidente-in-pectore”.
Nella Di Maio diplomacy al centro dello strappo grillino allora non è impossibile scorgere un filo rosso. Tirato, a tratti quasi strappato (qualcuno ha detto gilet gialli?) ma di stoffa ben diversa da quella che ieri ha avvolto e in parte ancora avvolge i ragionamenti grillini sul mondo e l’ordine internazionale, come dimostra la guerra russa in Ucraina.
Dice Scotti: “Oggi è sorpreso solo chi ragiona di politica per schemi e per ingessature. Non capendo che dalla fine della caduta del muro la storia non consente più alibi, ci costringe a misurarci con i problemi e non con le ideologie”. “Credibilità nella continuità – riprende il Dc – è quel che Di Maio ripete oggi, con più esperienza alle spalle e forse meno enfasi elettorale”. Non a caso, ricorda Scotti, già all’epoca Di Maio “auspicava per gli esteri un politico”.
Promessa mantenuta solo un anno e mezzo più tardi. Quando dopo la parentesi del tecnico Moavero Milanesi l’ex capo dei Cinque Stelle ha reclamato a sé la Farnesina, a conferma di una visione (e un’ambizione) politica sulla diplomazia italiana e il posizionamento del Paese nel mondo. I segnali c’erano, dunque. E ben prima delle elezioni del 2018, bastava aprire gli occhi. “Non abbiamo l’intenzione di isolare l’Italia. Né di esaltare sentimenti nazionalisti”, diceva Di Maio nel novembre del 2017 a uno stupito cronista del Washington Post. “Rigettiamo in ogni modo l’idea di essere chiamati populisti”.