Le parole del premier segnano il percorso che dovrà intraprendere chi vincerà le elezioni e si appresterà a governare. Il populismo continua a covare sotto la cenere di una società confusa e impaurita, pronto a riaffacciarsi con la virulenza che gli è propria non appena il disagio dei cittadini e le difficoltà della fase politico-economica prenderanno il sopravvento. Il mosaico di Fusi
Gli avvertimenti sul populismo da combattere nella guerra per il gas. Lo scontro diretto con Putin e il pressing per il tetto al prezzo dell’energia. Lo stop al superbonus edilizio. C’è chi scorge nelle ultime esternazioni e/o decisioni del presidente del Consiglio un sottile ma assai robusto filo che parte da palazzo Chigi e lì ritorna, dopo aver doppiato la boa delle elezioni politiche.
Che insomma SuperMaio, neppure troppo blandamente, stia posizionando sul tavolo del potere i pezzi del puzzle per costruire il mosaico della sua riconferma dopo una chiamata alle urne che magari non produrrà un vincitore chiaro. Questo supposto lavorìo incoccerebbe anche i desiderata di un pezzo di sistema politico che punta a disarticolare gli attuali schieramenti di centrodestra e centrosinistra al fine di costruire un perimetro di sicurezza attorno a Draghi, un piedistallo politico-istituzionale che andrebbe da Di Maio a Giorgetti passando per Calenda e Renzi, sul quale poggiare il bis.
Forse. O magari si tratta nient’altro che di vagheggiamenti di interessati apprendisti stregoni che si appoggiano sulla figura del capo del governo, per così dire prendendola a prestito, per coltivare propri sogni di stabilizzazione sentendo sotto i piedi (il riferimento è soprattutto al titolare della Farnesina) traballare il franoso terreno del consenso.
Mario Draghi è una risorsa per il Paese; è corretto dire al momento la principale quanto ad autorevolezza, prestigio, capacità di inserirsi nelle combinazioni geo-politiche di un’Europa alle prese con una aggressione che mira a svuotarne le fondamenta ideali nonché la forza di intervento, non solo diplomatica ma anche militare. Ma proprio per questo, ossia sapendo che Draghi opera come un civil servant in una condizione di liquefazione delle forze politiche, e che avendo ricevuto un incarico dal Quirinale intende potarlo a compimento, è possibile rovesciare il significato delle sue mosse intendendole non come giubbotto anti-proiettile nei riguardi degli appetiti di qualche fantomatico rivale quanto bensì come pezzetti di pane di un novello Pollicino che prepara e segna il percorso, in qualche misura blindandolo, per il suo successore, chiunque sia.
E’ possibile cioè leggere le parole di SuperMario come una sorta di testamento politico che poggia su un warning preciso: la lotta al populismo che magari in Italia subisce una battuta d’arresto perché i suoi principali interpreti – Salvini e Conte – sono in crisi ma che continua a covare sotto la cenere di una società confusa e impaurita, pronto a riaffacciarsi con la virulenza che gli è propria non appena il disagio dei cittadini e le difficoltà della fase politico-economica prenderanno il sopravvento.
L’appello anti-populista di Draghi, in altre parole, segna il percorso che dovrà intraprendere chi vincerà le elezioni e si appresterà a governare. Più o meno verosimilmente poco importa, infatti, i risultati della recente tornata amministrativa hanno squadernato la contendibilità dello scontro per la vittoria elettorale. Se fino a pochi mesi e addirittura settimane fa, qualunque analista politico avrebbe dato per praticamente scontato il successo del centrodestra nella sua articolazione solita, cioè il triumvirato Fdi, Lega, FI, adesso le cose – al di là dei numeri elettorali e della diversità delle regole del gioco tra elezioni politiche e amministrative – per quel che più conta, ossia il sentiment politico complessivo, sono cambiate. E il merito principale di Enrico Letta sta qui: non nell’aver rovesciato la contabilità del consenso (il Pd era e resta intorno al 20 per cento e non sfonda) ma di aver reso realistico l’obiettivo della vittoria dello schieramento che intende capeggiare, largo o stretto che sia.
Se davvero è così, il senso degli ammonimenti di Draghi vale il doppio. Perché entrambi gli schieramenti sono innervati dal demone populista e chiunque prevalga è un prezzo che l’Italia non può permettersi di pagare. La fase che si è aperta con il con il conflitto tra Mosca e Kiev è destinata a mutare in profondità gli assetti mondiali. E ad aver conseguenze sulla vita concreta di milioni di persone. Tutto ci si può permettere tranne che disperdere il patrimonio di valori e di pratiche che segnano a Ue come uno Stato di diritto e non il palcoscenico di avventure capaci di svellere la sua essenza, di cambiarne l’anima.
Se Draghi si comporta in quel modo è perché avverte il pericolo. Sperando che la sua non sia una lezione a vuoto.