C’è il regalo lituano all’Ucraina, c’è l’arrivo di nuovi pezzi in Niger, c’è l’interessamento di Arabia Saudita e Finlandia. I droni per Erdogan sono un’arma politica estera, utile a costruire relazioni internazionali
La società turca Baykar, produttrice di alcuni velivoli senza pilota di particolare successo in questo momento, ha fatto sapere giovedì 2 giugno che regalerà un drone Bayraktar TB2 all’Ucraina, rispondendo a uno sforzo fatto dai cittadini lituani, che a loro volta avevano raccolto i fondi — 5 milioni di dollari in tre giorni — per donare a Kiev un nuovo aereo. L’Ucraina li sta utilizzando per difendersi dall’invasione russa, un tema su cui Vilnius è molto sensibile. Gli Stati baltici si sentono particolarmente minacciati da Mosca e temono di essere i prossimi a finire nel mirino del Cremlino. Quei Paesi, insieme agli altri del fronte orientale europeo e Nato, hanno da subito iniziato ad aiutare con il sostegno militare e politico gli ucraini, sentendosi accomunati nel destino (questo impegno attivo è parte delle parziali discrepanze all’interno dell’Ue sull’intensità della reazione alla guerra voluta da Vladimir Putin).
La Turchia sta fornendo commesse anche durante la guerra di droni TB2 all’Ucraina (tecnicamente andrebbero definito velivoli senza pilota da combattimento, con acronimo inglese Ucav, ma il termine “droni” è un’accettabile semplificazione giornalistica se ci si rivolge a lettori non necessariamente esperti, nda). Kiev li usa per efficienza ed efficacia, per costo (contenuto rispetto a quelli di altri mezzi, come i seppur più performanti Reaper americani, che costano il doppio). Li usano in tanti anche perché Ankara non si fa troppi scrupoli etici e morali a fornirli a potenziali acquirenti, anche in versione armata — cosa che gli americani non fanno, escluso i particolarissimi casi di Regno Unito e Italia. Ed ecco che tra gli utilizzatori attuali e futuri (già contrattualizzati) figurano Paesi come l’Azerbaijan (sono stati fondamentali nel recente conflitto del Nagorno-Karabakh), il Marocco (potrebbero essere un fattore in più per il controllo del Sahara Occidentale), l’Etiopia (li sta usando nella guerra del Tigray), Turkmenistan e Kirghizistan (Paesi non proprio liberali con cui Ankara ha una relazione nell’ambito degli Stati uniti del mondo turco, e infatti il Tagikistan potrebbe essere un prossimo cliente), il Qatar, la Polonia, l’Iraq e infine il Niger.
Niamey per esempio è impegnata da tempo nel cercare di rafforzare le capacità operative delle sue forze di difesa al fine di affrontare le minacce interne e regionali alla propria sicurezza, in particolare provenienti dai confini con Mali e Burkina Faso, ma anche con Nigeria e Libia. Il paese ospita già una base usata dagli Stati Uniti — la Base 201 di Agadez — per missioni con gli Ucav nella regione. Ma intende implementare indipendentemente le proprie capacità: per questo avrebbe effettuato diversi ordini, tra cui i TB2 appunto. All’inizio di marzo, il presidente Bazoum Mohamed si è recato in Turchia dove ha visitato diverse fabbriche di armi militari e in questa settimana i primi due esemplari di droni da combattimento della Baykar sarebbero atterrati sul suolo nigerino.
Questo significa che dopo le attività in Nord Africa — in Marocco e l’uso in Libia a difesa del vecchio governo onusiano attaccato dai miliziani di Bengasi — ora i droni turchi potrebbero iniziare missioni operative anche nel Sahel. È un ulteriore approfondimento, con questi armamenti che sono di fatto uno strumento di politica estera per Recep Tayyp Erdogan (suocero della mente che ha reso i velivoli particolarmente funzionali, Selçuk Bayraktar, brillante ingegnere uscito dal Mit di Boston e sposato con una delle figlie del presidente turco, che occupa il ruolo di Cto nella ditta di famiglia).
Non bastasse la lista di clienti e di chi vorrebbe esserlo, in continuo allungamento, ci sono altri due passaggi che emergono in questi giorni e che rappresentano l’importanza che i velivoli hanno nelle relazioni internazionali turche. Il primo: mentre Turchia e Arabia Saudita stanno ricostruendo le relazioni (il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, sarà presto in visita in Turchia) emergono maggiori dettagli su un interessamento saudita per i TB2. La fornitura andrebbe a colmare un vuoto che Riad sente da anni: grande acquirente di armi Made in Usa, legislatori e amministrazioni americani non gli hanno mai accordato il consenso per l’acquisizione di droni armati (per quel genere di ragioni di cui sopra). Erdogan potrebbe usare la commessa come arma in più nella diplomazia con cui intende riavvicinare i due Paesi, divisi dalla faglia dell’interpretazione del sunnismo.
Il secondo: Pekka Haavisto, ministro degli Esteri finlandese, ha detto mercoledì che il suo Paese e la Turchia potrebbero concludere accordi sulla vendita di armamenti se entrambi fossero membri dell’Alleanza Atlantica. “C’è una tecnologia d’armamento della Turchia che potrebbe essere interessante per la Finlandia. Tutti hanno seguito questi droni e altri sistemi. Ma non voglio anticipare gli eventi. Prima esaminiamo lo stato dei negoziati in corso”, ha dichiarato in una conferenza stampa. È certamente una charm offensive, visto che Erdogan sta facendo resistenze davanti alla richiesta di inclusione nella Nato da parte di Finlandia e Svezia. È una posizione identitaria quella del turco, legata più al piano interno che a quello internazionale, perché Erdogan sta battendo sul lassismo nei confronti dei curdi del PKK da parte di Helsinki e (più che altro) di Stoccolma pensando soprattutto alle elezioni del prossimo anno e alle operazioni militari contro i gruppi combattenti curdi lanciate in queste settimane in Iraq e Siria.
Tuttavia i droni potrebbero essere un punto di contatto e distensione, testimoniandone il valore nel network dei rapporti internazionali turchi. In un’approfondita analisi per l’Ecfr, Federico Borsari definisce i droni come “tools of influence” e spiega che la versatilità, l’economicità e l’efficacia del TB-2 turco ne hanno fatto il drone più venduto della storia. L’interesse per questo genere di tecnologia da combattimento sta producendo un proliferare di nuove armi nella regione Mena, con molti Paesi che, spinti anche dall’esperienza positiva della Baykar, hanno fissato come obiettivo quello di entrare nel lucroso settore della difesa con industrie indigene, sia per “ridurre la pressione sui propri bilanci, potendo acquistare a livello nazionale, sia per poter sostenere gli alleati in tutta la regione con [la leva dell’]hardware militare”, scrive Borsari.