Se i Ventisette vogliono svilupparsi e competere con le grandi superpotenze, non possono permettersi anelli deboli. L’ultimo rapporto del think tank valuta, settore per settore, i contributi di ogni Paese per la sovranità europea. Italia nella media, meglio in difesa e peggio in tecnologia
“La sovranità europea non significa costruire steccati o ritirarsi dalla scena mondiale, né dovrebbe esistere in opposizione alla sovranità nazionale. Si tratta invece di potenziare la capacità dell’Unione europea di gestire le complesse interdipendenze che caratterizzano il mondo di oggi”. Perché non si possono mantenere o proiettare i propri valori senza un’infrastruttura in salute dove possano esistere. Con questa premessa l’European Center on Foreign Relations (Ecfr) apre il suo ultimo rapporto sui contributi di ogni paese Ue alla sovranità collettiva dei Ventisette.
Il giudizio complessivo fa risaltare subito le criticità: la sovranità Ue ottiene un “buono” su salute ed economia, ma è solo “sufficiente” in difesa, migrazione e clima – e bocciata per quanto riguarda la tecnologia, un vero tallone d’Achille per una potenza moderna. Il rapporto evidenzia una discrepanza immensa tra livello di ambizione – alto, anche per via della spinta dei Recovery Fund – e capacità tecnologica.
Forse, suggeriscono gli autori, in Ue non si mette mano al portafoglio dopo aver parlato di investimenti tech. Vale per il clima e la difesa, dove si registra una forbice di spessore tra i Paesi che contribuiscono di più e quelli più restii ad allentare i cordoni della borsa. “Ciò dimostra che alcuni Paesi sono vicini a realizzare il loro potenziale nel contribuire alla sovranità europea in materia di difesa, mentre altri stanno fallendo terribilmente”, scrivono gli autori.
E l’Italia? Rientra pienamente nella (non entusiasmante) media europea. Con un picco positivo sorprendente: 6,5 in difesa rispetto al 5,9 europeo, dietro solamente a Francia e Germania sotto il profilo dei contributi alla sovranità Ue per la difesa. Una conseguenza dell’impulso che hanno dato il Parlamento e il governo Draghi agli investimenti nel settore, con l’indicazione di raggiungere il 2% del Pil (al netto di ritardi e ripensamenti delle forze politiche).
La pagella peggiora se si esamina il capitolo tecnologia, in cui Roma torna a casa con un 4,3 (media Ue 4,8). Un risultato scarso che si ripercuoterà esponenzialmente sulla crescita del sistema-Paese negli anni a venire. Come scriveva su queste pagine Giacomo Bandini, direttore generale di Competere, la stagnazione italiana ha radici profonde, consolidate nell’ultimo decennio: serve una nuova strategia industriale fondata su investimenti, consumi e soprattutto innovazione tecnologica. D’accordo anche gli analisti Ecfr: “in qualità di uno dei cinque Stati membri più grandi dell’Ue e dato il suo potenziale, l’Italia deve investire maggiormente nelle sue capacità”.