Il conflitto in Ucraina è la perfetta sintesi della poli-crisi del nostro tempo. Dal ritorno della guerra in Europa, alla crisi energetica fino agli effetti sulle catene di approvvigionamento cruciali per le industrie del prossimo futuro, e del presente. Dal grano ai chip, l’amara scoperta di un sistema che ci presenta il conto…
Dopo quasi quattro mesi, l’invasione russa dell’Ucraina ha completamente ribaltato un quarto di secolo di certezze sulla marcia senza ostacoli della globalizzazione industriale, economica e delle filiere, e gli annessi benefici, sui quali la discussione è in realtà aperta da più di un decennio.
Se da un lato l’integrazione economica e commerciale mondiale ha avuto i suoi effetti nell’appiattire le differenze inter-regionali, come ha ricordato in un editoriale sul Financial Times Martin Wolff avvertendo dei rischi concreti di un decoupling su vasta scala, dall’altra non ha del tutto realizzato l’ipotesi che una maggiore interconnessione avrebbe alzato per tutti i partecipanti al sistema economico globale i costi del ricorso al conflitto coma extrema ratio. Vi è una differenza sottile, tuttavia, che differenzia un mondo ideale, “piatto” e ascrivibile ad una logica di scelte razionali ed economiciste, da quello reale in cui i rapporti di forza tornano con prepotenza e scavalcano interessi a breve termine. La capacità di cogliere questa differenza, e le diverse sfumature che corrono tra competizione e collaborazione, sarà fondamentale per incidere realmente, a partire dalle scelte politiche.
Per inquadrare la situazione, ritorna utile utilizzare la lente VUCA. Acronimo inglese introdotto dallo US Army College, ci consente di guardare alla crisi ucraina da quattro angolature. La prima: vulnerabilità. L’attuale sistema delle global value chains è sicuramente un unicum nella storia, ma come la pandemia ci ha mostrato risulta molto suscettibile a scossoni esogeni e non ultimo endogeni al sistema stesso. Perché la Russia è stata, ed è tuttora al netto delle sanzioni, un paese ancora profondamente connesso alle filiere internazionali: lo è per le materie prime energetiche (gas, petrolio) dalle quali lo sforzo all’affrancamento è più pronunciato per ragioni geopolitiche e climatiche, ma anche per i metalli ferrosi e non ferrosi.
E seppur sia responsabile dell’esportazione di materiali a monte della catena di fornitura (in breve, materie prime e pochi prodotti semilavorati a più alto valore aggiunto), l’aggressione all’Ucraina ne ha aumentato il peso specifico. Pensiamo ai carichi di grano ucraini bloccati nei porti, che rischiano di causare una carestia senza precedenti (Russia e Ucraina, insieme, contato per quasi 1/3 dell’export globale): all’ultimo Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il ministro degli Esteri ganese, Shirley Ayorkor Bochwey, ha ricordato che l’impatto del conflitto stia avendo riverberi sulle popolazioni globali su una scala che non si verificava dalla Seconda guerra mondiale. O ad altri metalli che saranno cruciali per le infrastrutture a supporto della transizione energetica, esportati in Europa in volumi importanti dalla Russia. A confermalo è un recente rapporto del Joint Research Centre (JRC), cervello scientifico della Commissione europea: Mosca è un produttore chiave di 13 materie prime critiche (in primis i platinoidi, vanadio, antimonio, germanio, tungsteno, gallio e niobio), acciaio, rame, nickel e fertilizzanti.
Oppure, alle ripercussioni sulla supply chain dei semiconduttori: l’Ucraina è infatti responsabile tra il 25 e il 35% dell’export di gas neon, un materiale utilizzato nelle attrezzature all’avanguardia per la produzione di microchip. Un input che, nell’attuale congiuntura, acquista un “valore” strategico di difficile quantificazione in uno scenario business as usual. In un recente summit organizzato tenutosi in Malesia, di fronte ad una platea di esponenti dell’industria globale dei semiconduttori, il CEO e Presidente dell’associazione SEMI, Ajit Manocha, ha rimarcato come la carenza di gas neon e l’aumento dei prezzi sul mercato potrà tradursi in una ulteriore dilatazione dei tempi, già di per sé lunghi, per l’aumento di capacità produttiva dell’industria, soprattutto per l’output di wafer al silicio. Solo entro il 2024, forse, si potrà intravedere un rilassamento delle strozzature lungo la filiera, scossa da un poderoso rimbalzo della domanda dell’elettronica di consumo e dal conflitto. Il tutto a svantaggio del settore automobilistico, che più di altri ha lamentato le carenze di chip sui mercati per una scarsa propensione a rinforzare gli inventari e per una domanda, quella di chip più maturi (sopra i 90 nanometri), che non incentiva le foundry a riorientare la produzione a svantaggio dei clienti del digitale.
Ed è proprio l’incertezza sull’evolversi del conflitto in Ucraina, peraltro territorio assai ricco di materie prime critiche e potenzialmente “riserva” europea di litio, a lasciare uno dei settori più strategici per l’industria 4.0 e tra quelli che più hanno beneficiato dell’integrazione delle filiere globali di fronte ad un problema di approvvigionamento ancora da quantificare per gli impatti futuri. Utilizzato per le tecnologie litografiche (il gas controlla la lunghezza d’onda della luce, emanata da un laser, nel processo di incisione sui wafer per la struttura nanometrica dei chip), il gas neon è un sottoprodotto dell’acciaio e legato alle attività industriale ucraine: circa il 50% del materiale era prodotto dalle aziende Ingas e Cryoin, che hanno dovuto stoppare le attività produttive nei siti vicino a Mariupol e Odessa. Poche compagnie al mondo sono specializzate in questo particolare segmento della catena, tra cui la compagnia Linde che ha annunciato un’espansione delle sue attività, in Texas, con investimenti da $250 milioni. Materiali, agenti chimici così come le attrezzature sono fortemente a rischio, e suscettibili di investimenti meno cospicui nel breve-medio periodo, essendo i segmenti meno remunerativi lungo la filiera, ma non per questo meno cruciali, soprattutto in un contesto in cui la ridondanza delle forniture diventa un asset a scapito dell’efficienza.
E qui veniamo alla complessità. Quella di un sistema fortemente integrato, che ha beneficiato dell’economie di scala, della libera circolazione di capitali, innovazioni (in termini di proprietà intellettuale) e materiali a basso costo per alimentare la corsa verso semiconduttori sempre più potenti ed efficienti. Lo dimostra anche la recente presa di posizione della Semiconductor Industry Association (SIA), lobby americana dei chip, sul rinnovo della moratoria WTO alle tariffe al commercio digitale ed elettronico, nonostante in casa giochi una partita a favore di lauti sussidi pubblici attraverso il Chips Act.
Oggi, la percezione del settore come altamente strategico per la competizione tecnologica, la crescente digitalizzazione e i problemi logistici mettono l’integrazione alla prova della sicurezza. Secondo le previsioni della SEMI, sono in fase di pianificazione a livello globale 86 attività produttive tra nuovi investimenti e espansione delle attuali (per fab capacity) da qui al 2024, circa il 20% della crescita per i siti da 200mm e il 44% per quelli da 300mm. Tuttavia, una rapida disconnessione tra i settori più a monte (materiali, equipaggiamento) e quelli a valle (foundry e design) rischia di approfondirsi se non si affronterà la carenza dei primi, prolungando la crisi dell’intero comparto. Con effetti a catena che si trasmetteranno su quei segmenti che, proprio per dinamiche di fluidità delle filiere, avevano riscontrato ampie marginalità ma che ora sono sotto scacco per l’aumento dei prezzi dei materiali: triplicato quello del gas neon, con aumenti significativi anche per palladio, indio, platino. Tutti ingredienti fondamentali per l’industria elettronica globale, e non solo.
Infine, l’ambiguità. Il destino dell’Ucraina è, per molti aspetti, un crocevia fondamentale di questo decennio e non solo. La guerra ha scardinato, forse in via definitiva, un assetto globale che predicava l’integrazione dei mercati al di sopra delle divergenze (geo)politiche. Ora che il trend sembra invertito, bisognerà capire quanto i costi di questo disaccoppiamento commerciale e tecnologico potranno essere assorbiti e legittimati. Avanza l’impressone, ad ogni modo, che l’invasione russa sia stata una mossa per scardinare equilibri già di per sé precari. Quelli di supply chain fortemente interconnesse, ma al contempo fragili. La guerra come fine, non come mezzo. La destabilizzazione permanente. Lo testimonia la difficile comprensione dell’obiettivo a lungo termine di Vladimir Putin: anche qualora, e auspicabilmente, si raggiungesse un accordo per il cessate il fuoco, tempistiche dilatate offrono l’occasione per infierire su alcune vene scoperte dell’Occidente.