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L’Iraq tra la crisi ucraina e il ruolo dell’Italia per la stabilizzazione

Mentre l’Iraq fatica a costruire un nuovo governo, il premier Khadimi continua nel suo tentativo di costruire un ruolo internazionale per Baghdad anche grazie all’impegno delle missioni di sicurezza come quella italiana

All’interno della crisi globale prodotta dall’invasione russa dell’Ucraina, l’Iraq ha scelto una posizione attendista. Baghdad ha deciso di allinearsi alla dichiarazione della Lega Araba del 28 febbraio con l’intento tattico di non voler offendere nessuno e di chiedere semplicemente una “soluzione diplomatica”. Ma ha anche preferito l’astensione nel voto con cui l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 2 marzo condannava l’attacco di Vladimir Putin a Kiev.

Come altri Paesi, l’Iraq ha scelto di non essere presente nella crisi. Una passività legata anche a sensibilità interne: i cittadini iracheni aspettano da otto mesi un nuovo governo, ancora non uscito dalle discussioni che hanno seguito le elezioni legislative dell’ottobre 2021. Moqtada al-Sadr, l’eclettico leader clericale la cui piattaforma politica populista-nazionalista sciita è stata relativamente privilegiata dal consenso pubblico, è emerso come “kingmaker”. Tuttavia fatica nella costruzione di un’alleanza di governo.

Al Sadr sulla guerra ucraina sostiene di avere una posizione “né occidentale né orientale”. Di per sé sembra una linea senza significato, ma serve a dire al suo elettorato che il suo movimento non è succube del contesto internazionale. Attraverso questa posizione guadagna standing a uso interno, nel braccio di ferro con le altre formazioni politiche (queste dinamiche sono perfettamente riconoscibili anche altrove, per esempio in Italia alcuni leader partitici cercano di sfruttare la crisi ucraina a proprio vantaggio in vista delle elezioni amministrative e di quelle politiche del prossimo anno).

Nello stallo politico che si è creato, dove la deadline per formare un nuovo esecutivo è scaduta da tempo, il governo di Baghdad resta guidato da Mustapha al-Kadhimi attraverso una maggioranza di unità nazionale. Il premier ne sta approfittando per spingere il suo desiderio di trasformare il Paese nel centro dinamico della fase dialogante regionale. Un’immagine: la Conferenza di Baghdad per la cooperazione e il partenariato — in cui si sono incontrati Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto — era qualcosa di impensabile fino a pochi mesi fa. Un’altra: la capitale irachena è la sede dei contatti diplomatici tra Arabia Saudita e Iran.

Posizioni che Khadimi intende occupare anche per  evitare di rimanere coinvolto nel gioco di potere tra Stati Uniti e Iran, le cui dinamiche hanno già trovato sfogo in Iraq. E rilanciare questo antico ruolo di mediatore e di potenza equilibratrice regionale, trasformando la sua diversità in forza, per il premier è anche un espediente per andare oltre gli scontri tra Turchia e Iran sul futuro del governo iracheno. Il primo ministro sta cercando ogni spazio possibile per spingere una politica positiva, con la consapevolezza di limiti e vulnerabilità.

Un mix tra questioni socio-economiche e sicurezza. Le conseguenze della guerra sul prezzo del grano, salito al 20%, stanno per esempio già provocando proteste in Iraq: un Paese che sta anche vivendo un numero record di tempeste di sabbia, dovute alla desertificazione che interessa quasi il 40% della sua superficie. Allo stesso tempo, il territorio iracheno è sede delle attività clandestine di gruppi jihadisti, come lo Stato islamico e delle milizie sciite legate ai Pasdaran.

“Seguo con attenzione il vostro lavoro, svolto con alto senso del dovere. Siete una testimonianza dei valori della nostra Costituzione: pace, libertà, democrazia, inclusione, rifiuto della violenza”, ha detto la viceministra degli Esteri Marina Sereni ai militari italiani presenti a Camp Singara, a Erbil, durante una recente visita un al contingente — che comandato dal colonnello Piercarlo Miglio addestra le forze locali. La presenza occidentale nella capitale del Kurdistan iracheno risale alla lotta allo Stato islamico. Disarticolata la dimensione statuale del Califfato, ora i contingenti come quello del colonnello Miglio — composto dal l 6° Reggimento Bersaglieri di Trapani e del 7° Reggimento Trasmissioni di Sacile — restano sul posto per capacity building.

Più volte nel periodo recente i reparti occidentali di Erbil sono stati attaccati dalle milizie irachene, che vedono il dispiegamento come una presenza ostile, soprattutto perché limita i loro interessi (già profondissimi nel Paese). È il doppio ruolo di una missione — il cui nome è “Prima Parthica” — che formalmente aiuta alla costruzione di capacità operative in ottica anti-terrorismo e per creare forze di sicurezza irachena in grado di affrancarsi delle attività delle milizie.

In Iraq, l’Italia — attraverso il generale Giovanni Innucci, già comandante della Brigata paracadutisti “Folgore” — guida la missione Nato, creata dopo il vertice di Bruxelles nel luglio 2018, a seguito di una richiesta del governo iracheno. Basata Baghdad dall’ottobre 2018, la Nato Mission to Iraq è una missione non-combat di consulenza e sviluppo delle capacità che assistenza nella costruzione di istituzioni di sicurezza e forze armate più sostenibili, trasparenti, inclusive ed efficaci, in modo che esse stesse siano in grado di stabilizzare il Paese, combattere il terrorismo e prevenire il ritorno di Daesh.

Queste strutture sono necessarie affinché il Paese riesca ad abbinare alle volontà strategiche dimostrate dal governo Khadimi anche capacità di essere indipendente sul delicato fronte della sicurezza. Allo stesso modo sono — sebbene in via non ufficiale — una forma di bilanciamento al ruolo delle milizie, che negli anni sono cresciute di peso e forza, influenzando anche la vita politica del Paese. Tanto che una delle linee politiche che dà consenso ad al Sadr è la critica al ruolo di queste organizzazioni politico/militari e alle connessioni che hanno con i Pasdaran. Da queste attività passa lo sviluppo futuro del Paese.


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