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Lavoro, salario minimo, cuneo fiscale. Cosa fare per evitare distorsioni

È possibile che gli effetti della contrattazione collettiva siano buste paga illeggibili? Forse è il momento per ricomporre voci e istituti contrattuali, aumentando la libertà di scelta dei lavoratori, aggiungendo flessibilità e trasparenza. Il commento di Antonio Mastrapasqua

Ho avuto molto a che fare con le politiche per il lavoro, ma non sono un esperto, tantomeno un accademico. Sono un manager che affronta quotidianamente le questioni di diritto del lavoro e sono stato a lungo un osservatore privilegiato degli effetti macro di tali questioni.

Quando in Italia si riaccende il tema del lavoro si crea subito una prima distorsione: un appiattimento del lavoro sul tema dei lavoratori. La nostra Repubblica è fondata sul “lavoro”, proprio perché i padri costituenti hanno voluto affermare una visione larga: il lavoro comprende i lavoratori e le imprese (ma anche lo Stato con i suoi obblighi contributivi e fiscali) e fra i lavoratori non distingue chi esercita il lavoro da autonomo, subordinato o libero professionista.

Anche quando si parla di salario – e in questi giorni si è assistito al riaccendersi del confronto sul salario minimo – si parla di lavoro e solo in conseguenza di lavoratori. Il salario non è una variabile indipendente. Il salario minimo indicato da Bruxelles – in verità rivolto ai Paesi dove la contrattazione sindacale non funziona – indica un valore (lordo o netto) che comprende o esclude gli oneri che gravano sul costo del lavoro. Difficile parlare di salario minimo senza pensare alle differenze non solo salariali e retributive, ma anche di imposizione fiscale e contributiva.

Difficile dare torto a chi – di fronte al dibattito che talvolta assume aspetti lunari – sollecita la soluzione di quella zavorra al costo del lavoro che in Italia va sotto l’etichetta di “cuneo fiscale”. Come ricordava in questi giorni Il Sole 24 Ore, a fronte di 300 miliardi di salari lordi corrisposti in media ogni anno nel settore privato, lo Stato incassa circa 100 miliardi di contributi previdenziali e 80 miliardi di Irpef per un totale di 180 miliardi di euro a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori: “Dunque, il reale cuneo fiscale e contributivo nel settore privato è pari a 60%, ed è molto più alto del dato Ocse che si attesta nel 2021 al 46,5%”. In questo rapporto il cuneo contributivo è maggiore, perché pesa per il 33% mentre il cuneo fiscale è del 26 per cento.

La sola riflessione sugli oneri contributivi dovrebbe indurci a fare confronti internazionali molto cauti: in Germania – che tanto viene evocata in questi giorni per avere disposto un salario minimo a quota 12 euro orari – gli oneri contributivi obbligatori sono circa la metà di quelli italiani. Giusto? Sbagliato? È un modello diverso, meno solidaristico, o meglio, si tratta di un modello solidaristico che scommette molto sulla mutualità assicurativa privata piuttosto che sulla concertazione pubblica: meno Stato più mercato, anche quando si alza la quota di salario minimo.

In Italia aumentare il salario minimo vorrebbe dire, al contrario, accentuare lo statalismo (il 60% del salario lordo va allo Stato) e abbassare il livello di contrattazione di mercato. Con buona pace del conflitto tra il ministro Patuanelli – tutto prono al verbo di Bruxelles – e il ministro Brunetta, che insiste, a ragione: “I bassi salari nel nostro Paese dipendono dalla bassa crescita e dalla bassa produttività”. Il presidente del Cnel, Tiziano Treu a sua volta se la prende indirettamente con Brunetta, quando sostiene che “dire che in Italia la direttiva Ue non serve è una sciocchezza. Tutti i settori sono coperti dai contratti, ma alcuni non li applicano e altri sono vergognosi. Una legge mirata potrebbe alzare le retribuzioni più basse”.

Eppure, dal mondo sindacale si è levata almeno una voce di buon senso; è quella di Roberto Benaglia, Fim-Cisl: “Un buon contratto vale molto di più di un minimo tabellare”. Veniamo infatti all’atra questione che troppi sembrano trascurare: la contrattazione, appunto. Se oltre il 90% dei lavoratori è coperto da un contratto collettivo nazionale di categoria, come si può considerare che il minimo tabellare – previsto dal contratto collettivo – non sia congruo? Lo hanno definito e sottoscritto le parti sociali. Il salario minimo per legge – e/o per effetto di una direttiva Ue – finirebbe per svuotare i contenuti contrattuali e quindi il ruolo della stessa delega sindacale.

Se i salari sono così bassi in Italia, vuol dire che il sindacato non ha fatto bene il suo lavoro, quando ha fissati i minimi tabellari? La domanda è retorica, ma pone un problema serio: è possibile che gli effetti della contrattazione collettiva siano buste paga illeggibili? Forse è il momento per ricomporre voci e istituti contrattuali, aumentando la libertà di scelta dei lavoratori, aggiungendo flessibilità e trasparenza.


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