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L’Italia e il tabù dei limiti elettromagnetici, un freno al progresso

Siamo l’unico Paese in Europa con più di 15 milioni di abitanti a non aver adottato gli standard consigliati dall’ICNIRP. Innalzare le soglie, sempre nel rispetto della salute umana e dell’ambiente, accrescerebbe le potenzialità non solo in termini tecnologici: frequenze più basse comportano tante più antenne da installare e quindi suolo da consumare

Lo sviluppo tecnologico del Paese passa (anche) dai limiti elettromagnetici. La battaglia sull’innalzamento delle soglie infuria da anni, tra associazioni ambientaliste che si oppongono per ragioni di salute e chi chiede invece di adeguarsi al resto d’Europa. Rispetto alla media dei Paesi membri, infatti, l’Italia stringe molto di più la cinghia. Basti pensare che, in termini di potenza, i limiti imposti sono 100 volte inferiori rispetto a quelli di Germania, Francia Spagna e Gran Bretagna, così come quelli suggeriti dall’ICNIRP (International Commission on Non-lonizing Radiation Protection), Ong indipendente che si occupa di studiare gli effetti dannosi delle radiazioni non ionizzanti sull’uomo, riconosciuta anche dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Attualmente, a regolare i limiti all’emissione elettromagnetica in Italia è la legge 36/2001 e il Decreto legge dell’8 luglio del 2003 recante “Fissazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualita’ per la protezione della popolazione dalle esposizioni ai campi elettrici e magnetici alla frequenza di rete (50 Hz) generati dagli elettrodotti”. In base alla legislazione vigente, nelle aree a permanenza prolungata (e quindi non inferiore alle 4 ore), il valore di attenzione massimo è di 6 V/m. In Europa, invece, la raccomandazione del 12 luglio 1999 (1999/519/CE) per le frequenze della telefonia mobile (900 Mhz e 1800 Mhz) pone un limite che oscilla tra i 41 e i 58 V/m. Limite che hanno deciso di introdurre la maggior parte dei Paesi industrializzati, esclusa appunto l’Italia.

Il nostro Paese è l’unico, tra quelli comunitari con più di 15 milioni di abitanti, a non aver adottato gli standard consigliati dall’ICNIRP. Anche la Polonia, che aveva sempre avuto un approccio cauto, ha deciso di intraprendere una strada più libertina e adeguarsi ai livelli dell’Ong. Avere meno potenza implica una serie di conseguenze che si oppongono allo sviluppo delle reti e dei servizi. Li ha illustrati anche il Politecnico di Milano per Asstel, stimando la necessità di 27.900 interventi aggiuntivi per allargare le maglie di questi limiti. Interventi che vanno dalla reingegnerizzazione dei siti già esistenti a quelli completamente nuovi: un totale di 4 miliardi di euro, che dovrebbero esser spesi dagli Operatori radiomobili.

Adeguarsi nel modo corretto, sempre tenendo conto degli studi sui rischi e i benefici che sono stati fatti sul tema da decenni a questa parte, potrebbe quindi consentire più di un passo in avanti. Almeno sette, per essere ancora più precisi, che rappresentano gli esempi più diretti e lampanti di miglioramento che apporterebbero limiti elettromagnetici più alti.

A cominciare proprio dal settore sanitario, dove i limiti indicati dalle Guide Lines dell’ICNIRP sono inferiori di 50 volte rispetto ai valori su cui sono stati studiati gli effetti. In questo modo le antenne avrebbero una potenza più omogenea, con i terminali che possono agganciarsi a quelle più vicine emettendo così potenze inferiori. Ma la questione riguarda anche un fatto paesaggistico ed ambientale, perché aumentare la potenza vorrebbe dire ridurre il numero di antenne sul territorio e, pertanto, un minore consumo di suolo su dove impiantarle.

A questo, poi, si deve aggiungere una conseguente riduzione del consumo dell’energia elettrica e una circolazione inferiore dei veicoli per la manutenzione degli impianti. Si ridurrebbero anche le procedure amministrative, con un minor carico di richieste per la P.A. e uno snellimento delle procedure che può portare a una maggiore rapidità negli interventi.

Infine, c’è un vantaggio tutto economico. Grazie all’attrazione degli investitori esteri nel nostro Paese, verrebbe meno (o quantomeno sarebbe limitato) il fabbisogno di investimenti privati, puntando invece i ricavi su ricerca e studi di sostenibilità che possono aumentare le competenze nel campo. Servizi migliori vorrebbe dire anche sedersi allo stesso tavolo delle grandi d’Europa, ma anche internazionali, risultando più competitivi e, di nuovo, più attraenti per gli investitori.

Di questo ha parlato al tavolo tlc al Mise Massimo Sarmi, presidente di Asstel e Fibercop: “La filiera delle telecomunicazioni sta attraversando una profonda trasformazione da qui la necessita` di una piena collaborazione con le Istituzioni preposte affinché si favorisca la sostenibilità economica del settore attraverso alcuni interventi mirati: l’armonizzazione dei limiti elettromagnetici agli standard europei, le semplificazioni delle procedure per l’autorizzazione della posa delle reti fisse e mobili di telecomunicazioni, la rimodulazione degli oneri per i diritti d’uso delle frequenze del 5G, l’applicazione dell’aliquota ridotta al 5% per l’acquisto di servizi di comunicazione elettronica a partire dal 1° gennaio 2024, nonché l’individuazione di misure di politiche attive per favorire la realizzazione della trasformazione digitale legate ad up-skilling e re-skilling e le nuove assunzioni anche per quanto riguarda la manodopera nei cantieri infrastrutturali”.

Roberto Basso, direttore External Affairs & Sustainability di WindTre, con la sua azienda ha sostenuto lo studio “Il settore Telco in Italia: assetto normativo e analisi di impatto”, realizzato da Luiss Business School, che certifica come solo il 61% delle famiglie italiane è abbonato a servizi a banda larga. Citando i numeri della ricerca, “Se il Paese si allineasse alla velocità media dell’Ue, nel 2025 il Pil registrerebbe 40,9 miliardi di euro aggiuntivi. Inoltre, se la percentuale di aziende coperte dalla banda larga in Italia raggiungesse il valore medio Ue, il nostro Pil registrerebbe, nel 2025, 110 miliardi di euro aggiuntivi”.

“Se si vuole contribuire alla digitalizzazione del Paese non bisogna cadere in un paradosso: tutti vogliamo strumenti digitali, ma abbiamo i limiti elettromagnetici più bassi di Europa. Un grande paradosso che non può trovare ancora terreno fertile nel nostro Paese”, ha affermato Michelangelo Suigo, direttore delle Relazioni esterne, comunicazione e sostenibilità di Inwit.

Tutto però passa dalla volontà di adeguamento agli standard elettromagnetici, che può arrivare da una riforma come sollecitato più volte dall’Unione europea quando si delineano le politiche di bilancio.

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