La Francia è in balia a un tormento. Al vertice un presidente delegittimato; al basso un sistema politico frantumato; nel mezzo partiti che assumono fattezze naïf, come quella cui hanno dato vita Macron e Mélenchon. È il capolinea della Quinta Repubblica. Il commento di Gennaro Malgieri
Emmanuel Macron entra dalla porta principale nella crisi del sistema politico francese. E inaugura una legislatura nella quale non c’è una maggioranza precostituita. L’Assemblea nazionale si aprirà tra qualche giorno per accogliere una nuvola di incertezza. Il presidente della Repubblica non ha raccolto i voti sperati per assicurarsi l’autosufficienza parlamentare: la sua coalizione Ensemble ha ottenuto 242 seggi mentre ce ne volevano 289 per assicurare l’appoggio al governo. L’antagonista principale, Jean-Luc Mélenchon, leader di France Insoumise e capo di una banda di sinistra denominata Nupes, ha preso 142 seggi, pochi per pretendere la poltrona di primo ministro e coabitare con Macron in una inedita combinazione di mondialisti e populisti. Marine Le Pen, pur senza aver fatto campagna elettorale, ha intascato il bottino più pesante politicamente: i suoi circa 90 deputati rappresentano un traguardo mai raggiunto dall’estrema destra nel dopoguerra e la gente non s’è fatta incantare dalla solita solfa “diabolizzante” un movimento che, come il Rassemblement national, è a tutti gli effetti uno schieramento ben radicato, diffuso su tutto il territorio, capace di mietere consensi oltre i confini della destra tradizionale.
Le Pen sarà a tutti gli effetti la leader dell’opposizione all’Assemblea, posto che la coalizione di sinistra, dopo questo apparente successo, che tuttavia è un insuccesso leggendo le intenzioni della vigilia di Mélenchon e dei suoi alleati, si sfarinerà per riconquistare, ognuno dei partecipanti all’ammucchiata, la propria autonomia.
Si guarda attonito intorno Macron e vede fantasmi. Quelli che si manifestano scalpitando senza farsi notare, sono i deputati post-gollisti del partito Les Républicains, dai quali è uscito il personaggio di maggiore spicco, Nicolas Sarkozy, che ha fatto campagna per Macron. Questi moribondi della politica francese, che hanno portato in Parlamento 64 rappresentanti, dicono ora di rifiutare qualsiasi apparentamento con Macron, ma con tutta evidenza non potrebbe essere altro il loro destino se non quello di mosche cocchiere del presidente che tuttavia non cederà a nessuno di loro la posizione di primo ministro, sia per l’esiguità della forza parlamentare che per l’ambiguità politica che non sfugge valutando comportamenti di questa sconnessa compagine.
È probabile che per governare, la sola strada, comunque, sia quella di tentare una coalizione con la “destra moderata” evitando la tentazione che pure qualcuno ha manifestato di chiedere a Mélenchon di “dare una mano” per salvare la Repubblica… Ma lo scaltro politico di sinistra sa bene che infilarsi in un pasticcio del genere significherebbe abdicare al suo ruolo di capo effettivo dell’opposizione nazionale a Macron, avallarne le scelte economiche monetariste, infognarsi in una difesa oltranzista della Nato, dare il consenso all’innalzamento dell’età pensionabile (al momento affossato), e ad altre cosucce che non poco dispiacerebbero agli ecologisti che hanno combattuto Macron per cinque anni. Non si può fare, a meno che non diventi primo ministro: impresa ancora più disperata che farebbe saltare per aria l’Eliseo, En Marche!, Ensamble e tutto il mondo che sostiene Macron nel quale finora si è riconosciuto acriticamente. Fino al momento della sua Waterloo.
Dunque, la Francia è per adesso senza maggioranza, un corpo senza vita. Il presidente immaginava, dopo aver riconquistato l’Eliseo, di aver vinto per un pelo il primo turno delle legislative, essersi assicurato (almeno così credeva) una diffusa espansione territoriale e dunque di vincere la partita. Complice l’astensionismo che si è rifatto sentire (la metà degli elettori è andata al mare), Macron ha scoperto di essere più solo che mai contando i caduti eccellenti tra le sue legioni. E ora non sa proprio che fare.
Di fronte alla rabbia di Mélenchon – che non entrerà in Parlamento perché non si è candidato – e lo smagliante sorriso di Le Pen che ambisce a coalizzare tutti gli oppositori, da destra a sinistra contro Macron, come enfaticamente ha dichiarata con una qualche esagerazione inaugurando una stagione di populismo radicale, dopo aver spazzato via il velleitarismo di Éric Zemmour, Macron dovrà fare la questua all’Assemblea nazionale per racimolare alcune decine di parlamentari (presumibilmente non tutti affidabili) per avere una base che supporti il suo governo.
I Républicains fanno i difficili, si mostrano sdegnosi, disinteressati, ma sono lì che attendono la chiamata decisiva. Il governo è stato per loro a lungo un miraggio, ora che si presenta l’occasione per agguantare qualche poltrona non sembra sensato che vi rinuncino.
L’alternativa sarebbero le elezioni anticipate: nel caso il naufragio macroniano sarebbe completo e la tempesta perfetta mostrerebbe ai francesi non soltanto il limite del presidente, ma anche la rottura del sistema elettorale che non funziona più perché è venuta meno la pregiudiziale “antifascista” che per decenni – salvo quando Mitterrand impose il proporzionale e il vecchio Jean-Marie Le Pen ottenne 35 seggi – ha impedito alla destra di conquistarsi il suo spazio.
Adesso che il “cordone sanitario” si è spezzato, la bionda signora può addirittura accarezzare il sogno di ripresentarsi per la quarta volta tra cinque anni alle presidenziali.
La Francia, comunque, è in balia a un tormento. Al vertice un presidente delegittimato; al basso un sistema politico frantumato; nel mezzo partiti che assumono fattezze naïf, come quella cui hanno dato vita Macron e Mélenchon. È il capolinea della Quinta Repubblica. E, disgraziatamente, all’orizzonte non si staglia la sagoma di un generale capace di unire il popolo e ridargli l’orgoglio perduto.