Tra i due litiganti, Conte e Di Maio, il terzo rischia più di tutti. L’autorevolezza di Draghi si è dimostrata un antidoto all’altezza della crisi internazionale. Ma la polveriera M5S potrebbe far saltare tutto. Il mosaico di Carlo Fusi
Gli interrogativi abbondano e se fino a qualche giorno fa le munizioni del leader pentastellato sembravano caricate a salve perché mettere in crisi il governo avrebbe rappresentato un costo troppo salato anche in termini elettorali, il botta e risposta polemico con il ministro degli Esteri ha riaperto la questione. Non è che infatti Di Maio sia partito così pesantemente all’attacco di Conte proprio perché prevede uno show down nefasto questa settimana?
Vedremo. La realtà è che al di là delle contingenze e dei riflessi sul quadro politico, peraltro forieri di inquietudini gravi visto che mandare all’aria le larghe intese adesso significherebbe aprire il vaso di Pandora di nuovi equilibri governativi assai difficili da costruire, regalando corposità allo spettro delle elezioni anticipate, lo scontro nel M5S riporta a galla la questione delle forze politiche che fanno del populismo e spesso della demagogia il loro propellente elettorale.
La lezione è sempre la stessa. Come infatti avvenuto e avviene anche in altri Paesi, queste formazioni politiche o movimenti esplodono più o meno all’improvviso nei seggi e conquistano consensi forti e in alcuni casi fortissimi sull’abbrivio del loro messaggio assai semplificato e carico degli umori di rabbia, frustrazione, preoccupazione di una fetta larga dell’elettorato. Illuminano la scena come fuochi d’artificio nella notte, ma con altrettanta rapidità regrediscono fino a spengersi perché i problemi gravi dell’attuale fase non possono essere risolti a base di slogan e mosse di corto respiro. Serve, al contrario, lungimiranza, competenza, capacità di affrontare la complessità. Tutte cose che i movimenti populisti non hanno la forza, si potrebbe dire culturale prima che politica, di affrontare e tantomeno risolvere.
Vale per il MoVimento ma il discorso può essere allargato anche alla Lega di Matteo Salvini. Agitare le bandiere della paura, dall’immigrazione al confronto con l’Europa, può essere il propellente giusto per mietere consensi in un segmento di tempo. Ma quando poi si tratta di “cavalcare la tigre” della governabilità e delle compatibilità della posizione italiana in ambito continentale e geo-politico, allora bisogna mettere campo strategie e visioni che poco hanno a che fare con la puerilità obbligata che il messaggio demagogico-populista contiene.
È successo con il Papeete, quando il Capitano ha immaginato che bastasse la sua, conquistata nelle urne delle elezioni europee, forza elettorale per mandare all’aria l’alleanza gialloverde, aprendo le porte a elezioni anticipate, senza comprendere che non era quello lo sbocco che poteva aiutare l’Italia in quel momento e che perfino pezzi del suo partito rigettavano.
Sta succedendo adesso con i grillini, che stanno vivendo e consumando fino in fondo la contraddizione di voler mantenere l’aspetto di lotta pur avendo occupato postazioni decisive nella cittadella del governo. Un’ambiguità che anche nella prima tornata delle recenti amministrative gli elettori hanno dimostrato di non gradire. Di lotta e di governo non si può fare, e non sembri blasfemia ricordare che quando un leader ben più attrezzato di Salvini e Conte come Enrico Berlinguer si vestì di quell’abito ideologico-politico subì le stesse delusioni che oggi vivono i frontmen di Lega e M5S.
Inutile girarci attorno. Come dimostra la fotografia scattata sul treno per Kiev, per poter giocare partite importanti sia interne che internazionali con ruoli prioritari serve una credibilità e un’autorevolezza che allo stato possiede solo il presidente del Consiglio. Il quale segue una linea chiara, a partire dall’endorsement per l’ingresso dell’Ucraina nella Ue, che mal si adatta ai giochini tattici e al provincialismo di alcuni dei partiti che fanno parte della sua maggioranza.
Per questo è ipotizzabile che anche le forche caudine del prossimo confronto parlamentare sulla guerra troveranno sperabilmente palazzo Chigi in grado di superare la prova. Ma l’eclisse delle forze populiste è inarrestabile e definitiva. Il che apre scenari decisivi per i prossimi mesi. E per la prossima legislatura.