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Il rebus dei referendum sulla giustizia. Alcuni rilievi etici

La giustizia è cardine della vita sociale e politica e non è assolutamente etico usare o intaccare questo principio servendosi di strumenti minimi, in sé anche opinabili, per un disegno non chiaro, che facilmente potrebbe assumere caratteristiche populiste e anticostituzionali. la riflessione di Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia Politica nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma

Ogni voto ha sempre una dimensione etica, anche quello dei referendum sulla “giustizia”; tuttavia non sempre è facile orientarsi eticamente. Senza voler essere esaustivo, a titolo strettamente personale, esprimo alcuni rilievi di questa natura. Innanzitutto va fatta una considerazione sulla genesi dei referendum: sono stati proposti dai Consigli regionali delle Regioni Basilicata, Friuli- Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Veneto e Umbria, governate da partiti del centrodestra. Non c’è nessun dubbio sulla loro legittimità costituzionale per la procedura seguita (art. 75). I referendum non sono stati proposti con la raccolta di “cinquecentomila elettori” (art. 75; numero da più parti messo in discussione, visto l’aumento del numero degli elettori) ma con un voto di Consigli regionali con lo stesso orientamento politico.

Se si entra nel merito dei quesiti ci si imbatte in argomenti cosi tecnici e particolari che creano difficoltà sia a semplici cittadini che agli operatori del mondo giudiziario. I primi, per quanto possano essere cittadini consapevoli del loro ruolo, non riescono ovviamente a cogliere tutti i risvolti della materia; i secondi, invece, si rendono conto di come il dibattito sui temi referendari è troppo ampio e strutturale da poter essere “racchiuso” in quesiti così tecnici. Sorgono allora alcune domande: i consiglieri regionali, delle cinque Regioni, erano consapevoli di tutto ciò? È giusto coinvolgere l’elettorato in questioni cosi tecniche? Non si tratta (per l’ennesima volta) di un abuso dello strumento referendario? Dal punto di vista etico (ovviamente non costituzionale) non è corretto coinvolgere l’elettorato su materie tecniche, perché questi delega già la propria sovranità a un legittimo parlamento a cui spetta legiferare. Diverso è il caso di materie cosi delicate, perché attinenti alla sfera della coscienza personale, da ritenere necessario il coinvolgimento dell’elettorato (per esempio, temi quali divorzio, aborto, fecondazione assistita, eutanasia ecc.).

Questa genesi dà immediatamente al referendum una connotazione politica: si ha l’impressione che gli strumenti tecnici (materia dei quesiti) siano usati, dai proponenti, per orientare il dibattito sulla giustizia in una particolare direzione, spesso legata ad interessi miopi e di parte, e non al bene della collettività. La giustizia è cardine della vita sociale e politica e non è assolutamente etico usare o intaccare questo principio servendosi di strumenti minimi, in sé anche opinabili, per un disegno non chiaro, che facilmente potrebbe assumere caratteristiche populiste e anticostituzionali. Per questo va ribadito con forza che i referendum non sono e non potrebbero mai essere sulla giustizia nel nostro Paese, sulla validità del sistema relativo, sulla necessità del ruolo della magistratura.

Il rebus dei quesiti e la relativa strumentalizzazione politica, la difficoltà nel comprenderli appieno e nel determinare quali effetti reali di un eventuale vittoria del SI o del NO, stanno portando, ancora una volta, alcuni elettori a non partecipare al voto. È etico astenersi? Secondo la Costituzione il voto è un dovere civico (art. 48): essa non fa distinzione tra quello politico-amministrativo e quello per i referendum. Una sentenza della Corte costituzionale (n. 96, 2 luglio 1968) afferma che “in materia di elettorato attivo, l’articolo 48, secondo comma, della Costituzione ha, poi, carattere universale ed i princìpi, con esso enunciati, vanno osservati in ogni caso in cui il relativo diritto debba essere esercitato”. Per i cattolici lo ricorda anche il Vaticano II: il voto serve a promuovere il bene comune (GS, 75). Formandoci e informandoci previamente, abbiamo, quindi, il dovere di votare sempre. Nel caso dei referendum, la Costituzione pone il quorum (50% più uno) per la validità di tutti referendum, tranne per quello sulle riforme costituzionali (art. 138), dove non è richiesto un quorum minimo di votanti ed è sufficiente che i consensi superino i voti sfavorevoli. La differenza tra il tipo di referendum può indurre a pensare che i Costituenti, avendo previsto il quorum per alcuni referendum, ritenessero accettabile ed etico non andare a votare? È quasi impossibile rispondere a questa domanda.

In termini etici (non costituzionali), a mio personalissimo parere, si potrebbe tuttavia sollevare una legittima obiezione: considerato che il voto è un mezzo per promuovere il bene comune e considerato il valore politico attribuito a questi referendum, sembrerebbe rischioso avvalersi del voto referendario in queste circostanze (ragionamento che non può essere applicato al voto politico e amministrativo). Dossetti, in Costituente, lo chiamò “diritto di resistenza” ai poteri pubblici degenerati. Da ciò sorge la domanda: come esprimere legittimamente questo dissenso? Per alcuni votando NO a tutti i referendum, per altri astenendosi dal voto. Va da sé che l’imbrattare la scheda è eticamente inaccettabile perché offende gravemente le istituzioni e, in definitiva, anche se stessi. Anche esprimendo il proprio dissenso con il NO (oppure con la scheda bianca), il voto contribuirebbe al raggiungimento del quorum e quindi la manifestazione del dissenso sarebbe più debole.

Sembrerebbe – il condizionale è d’obbligo vista la complessità della materia – che l’unico modo per esprimere il personale rifiuto dei quesiti, della proposta dei propositori e del loro valore politico sia l’astensione. La scelta va motivata, ovviamente, in coscienza e non sarà mai etica se è frutto di ignoranza o comodità, superficialità o assenza di sensibilità civica e politica. Un senso generale di amarezza deriva, comunque, da tutta la vicenda dei prossimi referendum. Il nostro Paese, da Tangentopoli (e, in parte, anche da prima), continua ad avere un rapporto immaturo e ambiguo con la questione giustizia. Abbiamo ancora tanto da imparare, perché come scriveva Romano Guardini, ognuno di noi è “responsabile del corso della storia e di ciò che diviene l’esistenza del mondo e dell’uomo stesso. Egli può agire bene o può errare, e per far bene deve essere nuovamente pronto a quella condotta che già Platone aveva riconosciuto come il compendio del dovere umano: la giustizia, ovvero la volontà di riconoscere l’essenza delle cose e di fare ciò che è giusto di fronte ad essa”.

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