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Il problema non è il referendum. Mirabelli legge il mancato quorum

Il presidente emerito della Corte costituzionale: “Il referendum costituisce un presidio fondamentale per la vita democratica di un Paese” . Ora è tempo di superare anche la riforma Cartabia. E sul Csm: “Dovrebbe porsi più come organo di garanzia della magistratura e meno come organo di autogoverno”

“Questo era un referendum a grappolo, che prometteva più di quanto potesse dare. Ma i problemi della giustizia restano”. Suona quasi come una sentenza senza possibilità di appello, il giudizio arriva da Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale e già vicepresidente del Csm, all’indomani dei risultati che hanno consegnato la sconfitta (annunciata) dei cinque quesiti referendari. L’affluenza alle urne, nella calda domenica di metà giugno, è stata un disastro. Il quorum, dunque, una chimera.

Mirabelli, ora l’ultima spiaggia – quantomeno nel breve termine – per tentare di riformare la giustizia è la riforma Cartabia. 

Mi aspetto che la riforma possa ottenere un esito positivo. Ma è tempo di guardare oltre, anche perché i correttivi che vengono proposti per riformare il Csm sono di poco conto rispetto agli obiettivi che ci si pone.

Che cosa servirebbe?

Innanzitutto una maturazione dei costumi degli attori nel mondo della giustizia. Il processo penale funziona se funziona l’avvocatura e se funziona la magistratura.

Molti eccepiscono sulla strapotere delle procure. È d’accordo?

Il pubblico ministero ha la dinamite in mano. Ed è per questo che occorrerebbe un senso di prudenza e responsabilità.

E per il Csm?

Il Consiglio superiore della magistratura dovrebbe atteggiarsi più come organo di garanzia della magistratura e meno come organo di autogoverno. La magistratura deve essere “garantita” non “governata”.

Quando ci furono i referendum su divorzio e aborto, il Parlamento legiferò e poi alcune forze politiche chiesero la “verifica popolare”. Questi sulla giustizia, invece, vengono prima di una proposta di legge e scelgono di abrogare pezzi di norme preesistenti. Anche a questo potrebbe essere imputabile la bassa affluenza alle urne?

In quei due casi emblematici, nei quali l’affluenza e la partecipazione furono oggettivamente alte, c’erano questioni di fondo. Temi che toccavano profondamente la vita delle persone. In questo caso non c’erano questioni così dirimenti, se non nelle dinamiche interne dei proponenti.

Dunque c’è stato un errore di comunicazione da parte dei proponenti?

C’è un problema di merito: non si può chiedere ai referendum di lanciare messaggi. E, allo stesso modo, non si può pensare che le consultazioni referendarie vengano scambiate per sondaggi.

C’è chi sostiene che questi risultati sanciscano la consunzione della forma referendaria. Lei che idea si è fatto?

Sono in profondo disaccordo con questa lettura. Il referendum costituisce un presidio fondamentale per la vita democratica di un Paese. Nonostante il risultato, il referendum comunque sancisce la possibilità, per i cittadini, di potersi esprimere.

Paesi a noi vicini, come la Svizzera, propongono frequentemente referendum, mediamente molto partecipati… 

In Svizzera il referendum viene proposto prima dell’entrata in vigore di una legge. Ma il sistema svizzero va considerato nel suo complesso, partendo dal presupposto che ogni cantone gode di assoluta autonomia e il sistema di governo è direttoriale.

Sui referendum, gli italiani all’estero per esprimere la preferenza devono recarsi nelle ambasciate, differentemente da quanto avviene per le altre elezioni in cui il voto è per corrispondenza. Non le sembra che anche questo sia stato un elemento di disincentivo a recarsi alle urne?

È in effetti una procedura macchinosa, per la quale sarebbe auspicabile una revisione, rendendo la possibilità di votare più snella. Va detto tuttavia che con i voti per corrispondenza, nelle diverse consultazioni in anni scorsi, ci sono stati non pochi problemi circa l’autenticità.

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