Si può discutere delle cause di un disinteresse così marcato, ma si può e si deve discutere soprattuto degli effetti che una tale diserzione dalle urne produce, soprattutto perché squaderna uno dei volti più inquietanti della crisi di sistema italiana: il buco nero della podestà legislativa. Il mosaico di Carlo Fusi
E adesso chi le fa le leggi in Italia? Gli elettori hanno boicottato i referendum sulla giustizia che hanno raggranellato il consenso più basso di sempre, intorno al 20 per cento. Si può discutere del perché sia successo, delle cause di un disinteresse così marcato. Ma si può e si deve discutere soprattuto degli effetti che una tale diserzione dalle urne produce, soprattutto perché squaderna uno dei volti più inquietanti della crisi di sistema italiana: il buco nero della podestà legislativa.
Vediamo. Secondo i canoni classici dei sistemi democratici, la sovranità appartiene al popolo che la esercita attraverso le forme della delega del potere: le elezioni, il Parlamento, il governo. Da decenni in Italia si assiste ad una crisi del meccanismo parlamentare, anche questo dovuto a vari fattori comprese leggi elettorali che hanno tolto agli elettori il potere di scegliere i loro rappresentanti. È una questione fondamentale troppo elaborata per essere affrontata in poche righe. È tuttavia impossibile contestare che il Parlamento, nella forma di bicameralismo pressoché perfetto che conosciamo, ha perso di autorevolezza e prestigio. Volendo affondare la lama, si può dire che è diventato un consesso di ratifica di decisioni prese altrove: nel Consiglio dei ministri, nei vertici dei partiti di maggioranza, nelle mediazioni svolte dal presidente del Consiglio. Di fatto, i provvedimenti legislativi di emanazione parlamentare sono stati azzerati: deputati e senatori votano le misure proposte e definite da Palazzo Chigi.
Contemporaneamente è via via andato in crisi anche il meccanismo che nelle intenzioni dei padri costituenti avrebbe dovuto fare da pungolo alle Camere offrendo ai cittadini, a determinate condizioni, la possibilità di cancellare norme approvate da Camera e Senato e costringendole così a colmare il buco legislativo prodotto dal voto popolare. Una forma precisa di cosiddetta “democrazia diretta” da affiancare alla podestà legislativa del Parlamento, in un bilanciamento di opzioni che negli anni ha svolto il compito meritorio di avviare l’Italia su sentieri di modernizzazione sociale: basti pensare ai referendum su divorzio e aborto; e ai tentativi di superare gli inceppamenti prodotti dal corto circuito Palazzo-Paese come nel caso dei referendum sulla preferenza unica. La storia recente spiega che dalla metà degli anni ‘90 in poi, quasi sempre il quorum della metà più uno degli aventi diritto non è stato raggiunto.
Dunque è in affanno legittimatorio il Parlamento e perde di attrattiva lo strumento referendario. Sono in crisi i due meccanismi che nelle democrazie liberali sono usati per approvare o cancellare le leggi.
Se così stanno le cose, si può tornar al quesito iniziale: chi fa le leggi in Italia? La risposta – al tempo stesso desolante e inquietante – diventa obbligata: le fa il governo con il Consiglio dei ministri che svolge una riedizione in piccolo del ruolo delle Camere, e con il presidente del Consiglio nelle vesti di mediatore-propulsore delle norme da varare. Nel mentre il Parlamento è sostanzialmente svuotato nelle sue funzioni e il referendum è scansato dagli elettori, l’esecutivo diventa l’organismo legislativo principe. Con una ulteriore torsione, anche questa poco tranquillizzante. Se infatti dopo il via libera in Consiglio dei ministri il provvedimento in questione incontra ostacoli in Parlamento per le riottosità delle forze politiche, il governo supera l’impasse con lo strumento della fiducia che azzera la possibilità di emendamenti e perciò, come detto, trasforma le Camere in assemblee con funzioni di ratifica o poco più. Già a metà degli anni ‘80, un giurista del calibro di Stefano Rodotà sottolineava che l’accoppiata decreto più fiducia stravolgeva il bilanciamento dei poteri sanciti dalla Costituzione. Negli anni, il fenomeno si è acuito e gli esecutivi governano ormai con una abnorme produzione di decreti legge cui si affianca un uso spasmodico del voto di fiducia.
A ciò si aggiunge l’usura dello strumento referendario che non funziona anche quando da singole norme “tecniche” da cancellare si passa a opzioni più strutturali di modifica della Costituzione. I testi prodotti da Berlusconi e da Renzi hanno subito la medesima sorte, finendo entrambi nel cestino.
Se le leggi le fa solo il governo in carica e le Camere ratificano mentre lo strumento referendario è disperso, è ancora democrazia? La domanda va posta affiancandole la continua discesa della partecipazione al voto, da quello politico generale a quello amministrativo. È il volto di un sistema bloccato e incapace di riformarsi, visto che i medici che dovrebbero curarlo sono gli stessi che inoculano i germi della malattia in una spirale perversa e apparentemente senza soluzioni.