Dopo il mancato pagamento delle cedole legate ai bond in dollari, frutto della strategia americana per mandare a gambe all’aria il Cremlino, Mosca può essere considerata tecnicamente fallita. Ma laddove i mercati se la svignano, arrivano ancora gas e petrolio
La Russia in default sul suo debito, per la prima volta dal 1918. Messa così potrebbe sembrare una vera e propria bomba, detonata sotto la sedia di Vladimir Putin. Ma, come sempre accade, bisogna fare la tara tra tecnicismi e sostanza. Mosca, non è certo un mistero, ha perso la fiducia dei mercati, che da mesi, anche sull’onda emotiva delle sanzioni americane, non prestano più denaro al Cremlino, impedendone il finanziamento di parte dell’economia.
Il conto è stato servito presto, buona parte della spesa pubblica russa oggi deve fare a meno di entrate che fino a pochi mesi fa erano garantite. Ma, rovescio della medaglia, la Russia rifornisce ancora mezzo mondo di gas e petrolio, pagato profumatamente. E questo vuol dire ancora tanti soldi nella casse di Mosca. I fatti.
Il default, ad oggi puramente tecnico, è scattato alla scadenza del periodo di grazia sui circa 100 milioni di dollari di obbligazioni non pagate, bloccate a causa delle sanzioni ad ampio raggio adottate ai danni del Cremlino in risposta all’invasione dell’Ucraina. Lo stato di insolvenza è scattato formalmente alla mezzanotte di domenica 26 giugno ma, attenzione, non perché non aveva i soldi per pagare, ma a causa dell’impossibilità di rimborsarle in dollari per effetto delle sanzioni inflitte dagli Stati Uniti, che hanno bloccato i pagamenti delle cedole legate a obbligazioni russe sul mercato americano, pilastro della strategia statunitense di portare Mosca a una sorta di fallimento pilotato.
Facendo un passo indietro, la Russia si era già avvicinata al default ad aprile, ma si era salvata in corner, rimborsando il debito in rubli e modificando unilateralmente l’elenco delle valute ammesse dal regolamento del prestito. Una possibilità garantita dalle esenzioni nei confronti dei creditori statunitensi, che inizialmente non erano stati assoggettati alle sanzioni alla Russia, venendo colpiti solo a maggio dopo il giro di vite del Tesoro americano.
Ora, l’evento della scorsa notte, per i motivi di cui sopra, ha in realtà valenza più che altro simbolica. La Russia è infatti un Paese economicamente, finanziariamente e politicamente già emarginato per gran parte dell’Occidente. In più, come detto, il fallimento tecnico sarebbe dovuto non alla mancanza di denaro da parte del debitore ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori. E poi ci sono petrolio e gas venduti in abbondanza ai Paesi dipendenti dall’ex Urss.
La domanda a questo punto è, che cosa accadrà ora? Certamente, senza l’apporto dei mercati per Mosca sarà sempre più costoso sostenere il proprio debito in futuro. Dunque, più che un default immediato per mano degli Usa, c’è da aspettarsi un progressivo deterioramento delle finanze russe: la contrazione del Pil a seguito delle sanzioni, il costo della guerra e il lento ma inesorabile sganciamento dei clienti storici, Italia inclusa, dalle forniture russe, unitamente alla sfiducia dei mercati potrebbero portare un giorno o l’altro al crack. Insomma, meno pil, mercati assenti e meno gas venduto, alla fine potrebbero mandare knock out Mossca. Quello sì che sarebbe un default reale e non certo nominale.
Nelle more, mai dimenticare che il Cremlino ha comunque annunciato che ricorrerà ai tribunali internazionali per contestare la legittimità della dichiarazione di default dal momento che da parte sua ci sono la volontà ed i soldi per pagare. Rodrigo Olivares-Caminal, presidente di diritto bancario e finanziario alla Queen Mary University di Londra, ha spiegato che “le questioni sono soggette a interpretazione da parte di un tribunale, ma la Russia non ha rinunciato per ora a nessuna della sua immunità sovrana e non si è sottoposta alla giurisdizione di alcun tribunale in alcuno dei due prospetti di emissione obbligazionaria”.