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Il salario minimo garantito è un antidoto. Polillo spiega perché

Utilizzare lo strumento del salario minimo, specie se concentrato nei settori meno protetti, può aiutare e mostrarsi l’antidoto necessario per scongiurare forme di indicizzazioni ben più compromettenti e pericolose

Dibattito complicato quello sul salario minimo garantito, messo in rampa di lancio da una decisione europea, per quanto non vincolante. Da un lato le ragioni della teoria. L’intervento di Alberto Mingardi su Il corriere della sera. O meglio di una particolare teoria, essendo il mondo dell’economia più variegato di quanto comunemente si creda. Dall’altra le ragioni del cuore: il solidarismo che é tipico della storia del nostro Paese. Che questa volta, tuttavia, cozza con le prerogative del movimento sindacale, cui spetta il compito di fissare i minimi contrattuali, con valore erga omnes, nel corso della trattativa contrattuale. Sennonché un simile schema, per essere a prova di bomba, dovrebbe avere come presupposto una legge sulla rappresentanza sindacale che, al momento, non esiste. E di conseguenza consente varie forme di trattative “pirata” volte a comprimere oltre misura il salario contrattato. Come si vede, quindi, un grande guazzabuglio.

Come orientarsi allora, anche per evitare di fare un bis con la fallimentare esperienza del “salario di cittadinanza”? Che ora, come proposto dal ministro Garavaglia, si cerca di modificare, unendo in un unico istituto entrambi. Una sua piccola riduzione e nuovi soldi in busta paga, in caso di reale disponibilità ad impegnarsi in quei settori, come ad esempio il turismo, in cui sussiste carenza di mano d’opera. Una complicazione in più, rispetto ad una discussione che vede contrapposte scuole di pensiero, ciascuna delle quali ha una sua indiscussa dignità. Per uscire da questo stallo, sarebbe utile mettere la sordina ai sacri principi, per misurarsi con la complicata realtà del nostro Paese. Aggiornando analisi, spesse troppo ferme ad un tempo passato. Situazione che si é modificata nel tempo, sotto i nostri occhi, senza che noi prestassimo la dovuta attenzione. Il tutto considerando le incertezze del momento: il clima sempre più drammatico di una guerra, come quella in Ucraina, che toglie il sonno e solleva l’orrore per i crimini commessi.

L’inflazione che é tornata a preoccupare, pomo avvelenato della fine (almeno così si spera) della pandemia, ma che la “missione speciale di Putin” ha reso più persistente, bloccando la distribuzione di quei beni alimentari – il grano nei porti dell’Ucraina – che rischia di determinare una tragedia in più, rispetto all’orrore quotidiano. Si spiega così la proposta di Ignazio Visco, il Governatore della Banca d’Italia, che tanto ha fatto discutere. Più che ripristinare qualcosa che somigli al vecchio meccanismo di scala mobile, meglio un intervento una tantum, per recuperare, con un piccolo scalino, quanto perduto finora per la perdita di potere d’acquisto. Poi in corso d’anno si vedrà. In questo caso, aggiungiamo noi, l’indicazione di un salario minimo potrebbe essere lo strumento tecnico per contribuire al successo dell’intera operazione. Soprattutto eviterebbe il rischio della rincorsa salari – prezzi che ci riporterebbe indietro agli anni ‘70.

Quando, appunto, da quella continua rincorsa sembrava impossibile uscire. Che in Italia esista un problema di bassi salari, specie se confrontati con i Paesi europei più importanti, é fuori discussione. La conferma statistica é evidente, come indicato da Ignazio Angeloni, su Il Sole di qualche giorno fa. Dalla nascita dell’euro i salari italiani, a prezzi costanti e corretti per il diverso potere d’acquisto, (dati OCSE) sono leggermente diminuiti (salvo il 2020) mentre quelli francesi e quelli tedeschi sono aumentati, seppure con una diversa scansione temporale, “di oltre il 17 per cento”. I dati elaborati dalla Commissione europea, nell’ambito del MIP (macroeconomic imbalances procedure), sono in linea con questi risultati.

Negli ultimi dieci anni (2011-20) il costo del lavoro per unità prodotta, misurato in relazione a quello degli altri paesi europei, come indice complesso (a dieci anni) della posizione competitiva di ciascuno, in Italia é cresciuto molto meno rispetto a Francia e Germania: -7,5 nel 2020, contro il – 2,9 della Francia ed il + 11,2 per cento della Germania. Questa minore pressione dal basso ha consentito all’Italia di compensare, almeno in parte, la minor produttività. Nello stesso periodo essa sarebbe cresciuta (dati cumulativi) dell’1,7 per cento in Germania (5,7 nel 2019), mentre sarebbe diminuita in Francia (1,1 nel 2020, dopo la crescita del 6,4 dell’anno precedente. Quanto all’Italia solo un andamento negativo:-9 per cento nel 2020 e meno 2,1 l’anno precedente. Questi ultimi dati vanno letti con cautela.

La produttività certificata é quella media. Mescola cioè le aziende iper tecnologiche del nuovo triangolo industriale (Milano – Treviso – Bologna) con i ritardi della Pubblica amministrazione o le aziende sottodimensionate di tanta parte del territorio nazionale. Non aiutano, pertanto, a comprendere l’evoluzione effettiva dell’economia nazionale. Va ricordato infatti che nel 2011, il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti era pari al 3 per cento del Pil. La posizione patrimoniale netta complessiva dell’Italia nei confronti dell’estero presentava debiti che superavano il 24 per cento dello stesso Pil. Fattori che avevano contribuito a determinare la crisi di quell’anno. L’anno passato si è invece chiuso con un surplus della partite correnti pari al 3,3 per cento del Pil. A sua volta la posizione patrimoniale netta si è rovesciata. A fine del 2021 i crediti concessi all’estero erano stati pari, secondo le ultime rilevazioni della Banca di’Italia ad oltre 132 miliardi di euro: il 7,5 per cento del Pil.

In pochi anni (dal 2013), quindi, l’Italia non solo aveva rimborsato tutti i debiti pregressi (circa 380 miliardi di euro), ma concesso a sua volta i crediti che abbiamo indicato. Cambiamento reso possibile solo grazie all’esistenza di due fattori: il contenimento dei costi ed una seppur relativa crescita della produttività. Questo stato di grazia durerà anche nel prossimo avvenire? Questo è il grande interrogativo del momento, che richiede prudenza. Da un lato un’inflazione alimentata dagli scompensi che si sono creati sui mercati internazionali, che la guerra di Putin ha amplificato. Dall’altro le incertezze della politica monetaria, che rischia di determinare un corto circuito ed il ritorno della stagflation. Tutto ciò esige di non abbassare la guardia. Ed ecco allora che utilizzare lo strumento del salario minimo, specie se concentrato nei settori meno protetti, può aiutare e mostrarsi l’antidoto necessario per scongiurare forme di indicizzazioni ben più compromettenti e pericolose.

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