Se non funziona il mercato, si userà la forza. Un economista del governo propone di nazionalizzare Tsmc, il colosso taiwanese dei semiconduttori, azienda leader mondiale. Segnale di irritazione, e di una Guerra Fredda tech con gli Usa che a Pechino non sorride
Bando ai formalismi. Adesso la Cina ci mette la faccia: più che invadere l’isola di Taiwan, la priorità è “sequestrare” Tsmc, l’azienda taiwanese leader del mercato globale dei microchip. La faccia è di Chen Wenling, capo economista del Centro cinese per gli scambi economici internazionali, gruppo di ricerca della Commissione per le riforme e lo sviluppo nazionale, la più importante agenzia di pianificazione economica del governo cinese.
Parlando durante un convegno, il funzionario ha dichiarato che, “se gli Stati Uniti e l’Occidente imporranno contro la Cina sanzioni distruttive come quelle contro la Russia, dovremo recuperare Taiwan”. Al centro delle mire della Città Proibita, ha svelato Chen, c’è Tsmc. Multinazionale con sede sull’isola autonoma, è l’azienda numero uno al mondo nella produzione di microchip, i nanometrici “cervelli” digitali che muovono interi comparti industriali, dall’automotive all’elettronica.
Un settore di cui Taiwan, l’isola rivendicata da Xi Jinping e che la Cina considera un’estensione del suo territorio, vanta un quasi-monopolio: solo Tsmc controlla circa l’84 per cento del mercato globale dei chip sotto i dieci nanometri – i più avanzati – secondo i dati dell’Istituto europeo degli studi asiatici. Per dirla con Scott Kennedy, esperto di Cina e tecnologia al Csis (Center for strategic and international studies) di Washington DC, il colosso hi-tech di Taiwan “è probabilmente la più importante azienda del pianeta”.
Quella dei microchip è una partita decisiva per la Guerra fredda tecnologica tra Stati Uniti e Cina. E il primo tempo, per il momento, vede la Cina in svantaggio. Ecco perché a Pechino non hanno preso bene la notizia – annunciata nel giugno del 2021 – di un maxi-investimento di Tsmc negli Stati Uniti. Cifre da capogiro: 12 miliardi di dollari. L’impianto nascerà in Arizona e inizierà a fabbricare i microchip da 5 nanometri – i più ricercati, specie dal governo cinese – a partire dal 2024. Uno spot elettorale non da poco per il presidente Joe Biden, che può giocarsi la carta occupazionale alle prossime elezioni di metà mandato. Di qui la furia del governo cinese contro l’azienda di Taiwan. “Stanno velocizzando il trasferimento negli Stati Uniti per costruire sei impianti lì – ha detto Chen nel suo discorso all’Università di Renmin – dobbiamo impedire che tutti gli obiettivi del trasferimento siano raggiunti”.
Le mire cinesi su Tsmc non sono certo una novità. Rimasto nella penombra fino al 2020, oggi il gigante taiwanese è diventato l’epicentro del mercato globale dei microchip grazie soprattutto alla pandemia che ha sconquassato le catene di produzione mondiali e fatto di Taiwan una superpotenza del settore. Per la Cina accelerare sui semiconduttori è una priorità assoluta. Scritta nero su bianco nel piano di Xi “Made in China 2025” dove è fissato un traguardo: arrivare a produrre in Cina il 70% dei microchip utilizzati. Obiettivo ambizioso, forse troppo: le sanzioni del governo americano imposte dall’amministrazione Trump e poi confermate da Biden stanno piegando il settore cinese, intralciando i piani di crescita di colossi nazionali come a Hi-Silicon (gruppo Huawei) e Smic.
Carpire i segreti industriali di Tsmc è allora una missione vitale per Pechino, tanto che Taipei ha attivato una squadra di contro-spionaggio proprio per fermare sul nascere il furto di proprietà intellettuale cinese. Taiwan non è solo un obiettivo strategico-militare, è soprattutto il più grande bottino tecnologico in palio nella competizione con gli Stati Uniti. E l’auspicio di un “sequestro” del suo gioiello industriale suona come un’accelerazione nella manovra cinese per reclamare a sé l’isola.