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L’Ucraina e la sindrome (europea) del Santo subito

Dalla diplomazia internalizzata alla sindrome del Santo subito fino alla comunicazione. La guerra in Ucraina ci consegna più di una lezione sulla politica estera ai tempi della post-globalizzazione. Il commento del professor Igor Pellicciari (Università di Urbino)

In Italia, terra nota per subordinare sempre e comunque vicende estere a quelle interne, non era affatto scontato il perdurare per mesi del monopolio della guerra in Ucraina sui palinsesti di notiziari e dei loro derivati, i talk di approfondimento. Addirittura in misura maggiore di quanto osservato in altri paesi, per vocazione più internazionalisti.

Poiché non basta un singolo episodio – per quanto importante – a cancellare vecchie abitudini né colmare cronici gap di esperienza, sono ricomparse alcune degenerazioni tipiche dell’incrocio tra politica e informazione.

La “diplomazia internalizzata”

Preoccupano i casi di esponenti politici che, noncuranti del contesto e del momento specifico, si avventurano (per superficialità o calcolo politico, poco cambia) in campi di competenza della professione diplomatica.

Che la diplomazia debba avere una guida politica va da se, che la Politica si improvvisi attore diplomatico è un inversione di polarità che crea un pericoloso cortocircuito. Matteo Salvini che si candida a mediatore di pace (uscita che, comunque la si giudichi, è stata tecnicamente goffa) è solo l’ultimo esempio di incursioni temerarie su terreni tecnici scivolosi che lasciano scorie difficili da smaltire nelle relazioni internazionali. Dove il precedente è uno dei motori che stabilisce percorso e credibilità delle mosse future.

Il rischio concreto è di bruciare un intero contesto di azioni diplomatiche di difesa dell’interesse statuale generale, confondendolo con iniziative che perseguono obiettivi di parte in un confronto peraltro rivolto tutto all’interno, estraneo di fatto alla politica estera. Lo potremmo definire un processo che porta dalla internazionalizzazione alla internalizzazione della diplomazia.

Non è un fenomeno nuovo né esclusivamente nostrano, anche se da noi raggiunge un’alta intensità per via di un mix di consuetudini e prassi figlie dell’utilitarismo di una classe politica abituata a ragionare in termini tattici sull’oggi a casa sua,  piuttosto che strategici sul domani oltre confine. 

Silenzio vs parole (come pietre)

Un’aggravante collegata al punto precedente è l’enorme quantità di commenti offerti a corredo delle poche informazioni sul conflitto ucraino disponibili al pubblico (comprensibile, in una situazione di guerra in corso).

Anche qui non siamo di fronte ad una novità assoluta. Tuttavia, l’effetto moltiplicatore delle piattaforme social e dell’informazione H24, garantisce larga eco e durata nella memoria collettiva a durissimi scontri retorici tra le parti in causa. Peraltro animati – talvolta inconsapevolmente – da quegli stessi attori politici coinvolti nella negoziazione per la fine del conflitto.

La parole diventano pietre che – collocate sotto un ombrello istituzionale – diventano pesanti ostacoli ad un’azione diplomatica efficace che per definizione richiede di operare discretamente, nel silenzio e attraverso i canali preposti. Usando toni moderati anche quando ci sono da difendere politiche dure e di potenza.

Esattamente il contrario, duole dirlo, di quanto fatto nel recente passato da Mario Draghi, unico leader europeo a dare del “dittatore utile” al Presidente Turco Recep Tayyip Ergodan, salvo poi doverci trattare da una posizione di oggettiva debolezza su molteplici dossier cruciali, a pochi mesi di distanza.

Audience vs informazione

Al netto dell’inflazionato paragone tra covid-19 e guerra, è chiara la continuità nei media del tipo di narrazione delle due crisi, finalizzata a fare audience, se serve, a scapito dell’informazione. Con il conflitto ucraino si sono riproposte tecniche già sperimentate con il virus:  da format giornalistici cuciti sul conduttore piuttosto che sugli ospiti; al tentativo di tenere alto l’interesse creando scontri ottenuti con il mettere in contrapposizione sullo stesso piano analisi tecniche e posizioni politiche.

La stessa sovraesposizione delle narrative di guerra (particolarmente esplicita in Italia) ricorda quella della campagna a favore della vaccinazione contro il covid-19. Necessaria e utile, ma ad un certo punto talmente martellante da avere generato dubbi e crisi di rigetto pure in ampi settori dell’opinione pubblica pro-vax. L’impressione è che sull’Ucraina i Media si siano lanciati usando toni e intensità tarate su una guerra lampo. Resta l’incognita se riusciranno a tenere un tale ritmo della narrazione ora che quella che si prospettava essere una gara di velocità, si sta drammaticamente trasformando in una maratona.

La sindrome del “Santo Subito”

Tra le principali percezioni deviate di queste settimane vi è non tanto il futuro ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea (oramai accettato da tutti, pure a quanto pare da Mosca) quanto i tempi ed i modi del percorso di adesione. Un argomento tecnico per eccellenza è stato caricato di significati politici, con i vari fronti a dividersi su un tema che lascia paradossalmente poco all’immaginazione (l’allargamento della Ue a nuovi Stati membri è tra i processi formali più articolati e dettagliati del Sistema Internazionale ).

Questa tensione su un aspetto tecnico è i risultato di quella che potremmo chiamare la “Sindrome del Santo-Subito”, deformazione del sistema politico-mediatico tipica dell’era social che porta a pretendere di bruciare tempi e modi nell’imporre esiti ad eventi complessi in nome delle pretese del comune sentire.

Quando (non solo a Roma) livelli politico-istituzionali apertamente asseverano ipotesi tecnicamente irrealistiche di un ingresso ucraino quasi istantaneo nell’Unione Europea non solo non rendono un buon servizio alla causa, trasformandola in argomento di scontro e polarizzazione per gli anni a venire. Soprattutto, scendono su un terreno non loro e impongono un sentire politico ad un operare diplomatico.  Nuovo capitolo della sopra citata Diplomazia Internalizzata. Utile sul piano interno; inutile, quando non rischiosa, su quello internazionale.

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