Non si fa la guerra per la guerra, ma per la pace, cioè l’assetto che segue la fine dei combattimenti. Non possiamo capire dove va la guerra russa in Ucraina se non ci chiediamo quale sia il vero end-game di Putin e Zelensky. L’analisi del generale Carlo Jean
Esistono profonde divergenze fra gli osservatori del conflitto in Ucraina nel valutare quali siano i veri obiettivi perseguiti da Vladimir Putin e da Volodymyr Zelensky. Individuarli è essenziale anche per porre fine a una guerra tanto sanguinosa e brutale e di aprire serie – non solo propagandistiche – trattative di pace. Tali divergenze si riflettono sui contenuti attribuiti al termine vittoria da ciascuna delle due parti, nonché sulle loro decisioni strategiche e sulla loro valutazione se il tempo giochi a proprio favore o svantaggio.
Da quest’ultima valutazione dipende la loro disponibilità a trattare una tregua per poi passare a una pace duratura. Ritengo che la fine più probabile del conflitto – lo si voglia o no, ha poca importanza – sia il suo congelamento, in modo per molti versi analogo a quello della Corea. Sua condizione essenziale è che vengano accettate dalla Russia credibili garanzie di sicurezza per l’Ucraina. In pratica, la presenza degli Usa, che dissuaderebbe una nuova aggressione. Per essa sarà necessario un accordo su un sistema paneuropeo di sicurezza, del tipo non tanto di quello di Helsinki (limitato a misure di trasparenza), quanto di quello della Carta di Parigi del 1990 e delle misure anche di sicurezza dell’Osce.
Beninteso, tutti parlano di vittoria. È logico che lo si faccia in ogni guerra. Nessuno fa la guerra per la guerra, ma per la pace, cioè per il tipo di vittoria che la segue. Ma esistono vari tipi di vittoria. Essi mutano nel corso dei conflitti secondo l’andamento delle operazioni. Le valutazioni circa gli obiettivi di guerra dei due avversari influiscono anche sulle variegate proposte fatte anche da molteplici parti esterne per la cessazione del conflitto e per la sostituzione delle armi con la diplomazia.
Mentre i possibili obiettivi dell’Ucraina – quindi la sua definizione di vittoria – sono abbastanza chiari, quelli della Russia lo sono molto meno. Quasi tutti hanno assunto che gli obiettivi di Mosca siano soprattutto territoriali. Per essi, come per Kissinger, ma anche per la massa di coloro che si proclamano pacifisti in Italia e in Europa – il recente caso più patetico è quello di Salvini, non accortosi di essere solo strumentalizzato dalla propaganda del Cremlino, il cui principale obiettivo è la disunione del “fronte occidentale” – la “formula magica” è quella di convincere l’Ucraina a cedere le province che vuole Mosca in cambio dell’incanto dell’apertura di un fantasioso tavolo di pace.
In caso di necessità, l’Ucraina potrebbe essere tradita, cioè costretta a cedere perché la sua resistenza dipende dal flusso di armi occidentali. A pochi è venuto il dubbio che a Putin interessino poco o nulla i territori. Nella sua “visione messianica” della “Madre Russia”, punta ad altri obiettivi. Di territori la Russia ne ha già abbastanza. Quella che le manca è semmai la popolazione per valorizzarli e controllarli. Vuole ricostituire un potente impero. Non accetta che la Russia rimanga uno Stato come gli altri.
Veniamo all’Ucraina. Quando Zelensky parla di vittoria, certamente non si riferisce a piazzare la bandiera ucraina sul Cremlino. Solo gli sciocchini possono pensarlo con le loro invocazioni alla pace, urlate per non precisare che pace vogliano. Il presidente ucraino pensa di ristabilire l’integrità territoriale dell’Ucraina entro i confini stabiliti nel 1991 e confermati a Budapest nel 1994, quando Kiev fu indotta a consegnare alla Russia i 1.900 SS-19 nucleari schierati sul suo territorio. Si accontenterebbe del ritiro russo dall’Ucraina, quale era prima del 24 febbraio.
La sorte delle due repubbliche secessioniste e forse anche quella della Crimea verrebbe decisa con referendum fra qualche anno, a rientro avvenuto della popolazione evacuata. La continuazione della guerra sarebbe per Zelensky un’opzione disastrosa, anche se il tempo gioca strategicamente a suo favore. Gli ucraini avevano un esercito di 250.000 uomini e stanno rinforzandolo con altri 100.000. Dispone di una milizia territoriale di almeno un milione di effettivi.
A differenza dei russi non ha difficoltà a rimpiazzare le pesanti perdite che subisce. La sua tenuta dipende dal rifornimento di armi sempre più potenti da parte dell’Occidente. La massa della popolazione continua a sostenere la resistenza. I disertori sono pochissimi. Al limite, in caso di crollo dell’esercito e d’occupazione del paese, gli ucraini condurrebbero una sanguinosa guerra di guerriglia.
I russi non dispongono degli effettivi per controllare il territorio. La mobilitazione dei riservisti diverrebbe inevitabile per il Cremlino. Politicamente resta improbabile. Già ora molti sono i disertori e i renitenti alla leva. Nel lungo periodo, il Cremlino dovrebbe ritirarsi, con pesanti ricadute politiche. L’Ucraina sarebbe comunque distrutta. Per gli europei – e anche per gli Usa – si realizzerebbe lo scenario che più temono: quello di una guerra prolungata.
A parer mio, comprendere gli obiettivi di Putin e come egli giudichi la situazione, è reso difficile dalle differenze culturali esistenti fra l’Occidente e la Russia. I criteri di valore seguiti non sono solo divergenti, ma opposti. Per l’Occidente, il Cremlino era preoccupato per la possibile avvicinamento dell’Ucraina alla Nato. Sa bene che una potenza con 5.000 testate nucleari non può essere attaccata, né soprattutto vinta. I più avveduti dei suoi analisti strategici non hanno mai pensato che gli obiettivi di Putin fossero essenzialmente territoriali: ristabilire la storica unità del “mondo russo”, necessaria per quella che la “Dottrina di Sicurezza della Federazione Russa” chiama “sovranità culturale”, “cavallo di battaglia” anche della Chiesa Ortodossa.
La Russia – dagli accordi Solana-Primakov del 1997 – non è mai stata preoccupata della Nato. È stata invece terrorizzata dall’europeizzazione dell’Ucraina e dal contagio che avrebbe avuto sul popolo russo e sull’indebolimento della “verticale del potere”, teorizzata da Surkov. Il mutamento di atteggiamento di Putin verso l’Occidente è stato causato dalla “Rivoluzione Arancione” e da quella “Euro-Maidan”. Temeva che minacciassero il suo potere.
I successi conseguiti e la sua persuasione del declino dell’Occidente – confermato dalla mancata reazione all’annessione della Crimea e alla secessione delle province di Luhansk e di Donetsk, nonché dalle vicende afgane – lo persuasero che avrebbe potuto tentare senza grandi rischi il “colpo grosso”, riportando l’Ucraina nel “mondo russo”. Ha fallito. I suoi obiettivi non erano e non sono territoriali, eccetto per la Crimea. Quando parla di “de-nazificazione” dell’Ucraina, intende la sua “de-occidentalizzazione”. Non insiste sulla sua esclusione dall’Ue, perché è certo di trovare nell’Unione qualche alleato che la blocchi e comunque disprezza l’Unione e la sua debolezza.
La cessione di territori in cambio di trattative lo fa di certo sorridere. Quello che capisce è solo il linguaggio della forza. Anche la dichiarazione di Macron di non volere umiliare la Russia, lo lascia indifferente. Tanto ci ha pensato già lui, con i pasticci militari che ha combinato: a parte il disastro a Nord di Kiev, ha trasformato l’Ucraina in nazione; ha resuscitato la Nato dal suo letargo; ha riportato gli Usa in Europa; ha indotto Svezia e Finlandia a chiedere di diventare membri della Nato; ha indotto la Germania a riarmarsi; e chi più ne ha, più ne metta.
La situazione evolve secondo l’imprevedibile esito dei combattimenti. Qualunque esso sia, il Cremlino ne uscirà comunque male. Ho l’impressione che Putin aspetti quasi fatalisticamente gli eventi: non può mobilitare, senza suscitare una rivolta dei riservisti; non può ritirarsi né decidere di trattare, sapendo di dover cedere qualcosa e di vedere eroso il proprio potere.
Anche in caso di occupazione dell’Ucraina, non avrebbe gli effettivi per controllarne il territorio, né le risorse per ricostruirlo. Dopo averlo tanto brutalmente distrutto. La Russia ne uscirebbe indebolita e umiliata. Putin deve decidere che fare per evitarlo.