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Quel centro per l’Italia e l’Europa. Scrive Mario Giro

Secondo Mauro Magatti occorre costruire ex novo tre alleanze nel profondo del tessuto sociale: quella tra le generazioni; quella tra coloro che creano valore; quella della sostenibilità e cioè transizione e giustizia sociale al contempo. Ma ciò che va ricostruita prima di tutto è la fiducia in un futuro comune

Un interessante articolo di Mauro Magatti sul Corriere della sera del 5 luglio scorso rimette il recente dibattito sul centro e i centristi (svolto anche su queste pagine) sui giusti binari: quelli della costruzione di una nuova alleanza al passo con le sfide dei tempi attuali di deglobalizzazione ed estrema fluidità politico-sociale.

Non si tratta quindi di ricercare neo-equilibrismi tra sigle e leader ma nemmeno tra ceti sociali in perdita di potere ed influenza. Secondo Magatti occorre costruire ex novo tre alleanze nel profondo del tessuto sociale: quella tra le generazioni; quella tra coloro che creano valore; quella della sostenibilità e cioè transizione e giustizia sociale al contempo. La caratteristica di tali nuove alleanze è che necessitano di un noi per realizzarsi perché nessuno può ottenerle da solo. Proviamo a chiederci se l’Italia e l’Europa possono produrre, oggi e nel prossimo futuro, tali visionarie alleanze che aprano la porta del domani.

Per quanto riguarda la prima alleanza le cifre parlano da sole: tutte le democrazie europee (e non solo) sono in decrescita demografica, provocando un effetto di richiamo da parte di altri spazi geografici e umani. È sufficiente girare per i centri delle nostre città la sera, o per le zone interne del Paese, per constatarlo ad occhio nudo: molte case sfitte e vuote, o palazzi e interi paesi abbandonati. Lo sappiamo da tempo eppure tale fenomeno non ci smuove. Si tratta di un fenomeno europeo. del quale l’Italia è al vertice. Lo si constata a causa della mancanza di lavoratori e lavoratrici in molteplici settori: in tutto il continente scarseggiano i camionisti, ad esempio; in Italia non ci sono più badanti e così via. Malgrado ciò le nostre società – quasi come tarantolate – restano immobili o si chiudono a riccio, reagendo con sempre maggior ostilità al bisogno di cambiamento.

In Italia lo Ius Scholae – davvero una cosa minima rispetto a ciò di cui ci sarebbe bisogno – fa scattare urla e panico che, prima ancora di chiamare irresponsabili, si dovrebbero definire infantili e da sprovveduti. Ma tant’è. Ancor peggio se si guarda con attenzione alla questione anziani: le numerosissime morti da Covid nelle Rsa in tutta Europa non scuotono né le coscienze né i bilanci statali: malgrado tutte le ragioni morali ed economiche per riformare l’assistenza (e il nexus sanità-assistenza sociale), i governi europei e – ancor peggio – le società stesse non reagiscono a tale scandalo.

Soltanto il governo italiano di Mario Draghi sta approntando una legge quadro di riforma dell’assistenza alle generazioni più anziane (per impulso della commissione presieduta da mons. Vincenzo Paglia), mentre in altri Paesi tali tentativi sono stati accantonati. C’è inoltre ovunque l’annosa polemica sulle pensioni: possibile che non si trovi nell’Europa del welfare e dei diritti una visione comune che metta fine al bipolarismo tra chi vede nel sistema previdenziale una spesa eccessiva o il privilegio smisurato delle generazioni passate rispetto alle successive, e chi invece lo trova ancora troppo debole e vorrebbe diminuire l’età pensionabile?

L’Unione Europea potrebbe farsi carico di tale dilemma: non è accettabile tale guerra giovani vs anziani che avvelena la nostra società e che è anche – mi si passi il termine – ridicola: tutti siamo stati giovani e tutti saremo anziani. Se poi tale dialettica si intreccia con quella tra baby boomers (additati per aver sprecato e avuto privilegi) e generazioni successive (da quella X a seguire, tutte accusate di essere poco dedite al lavoro, egoiste e chiuse in se stesse), possiamo dire con certezza di esserci messi sul piano inclinato del declino.

Un’alleanza tra generazioni non può essere soltanto un negoziato tra dare e avere: deve essere declinata nella visione di cosa possono diventare domani il nostro paese e il nostro continente. Già oggi i giovani sono più flessibili in quanto ad attività lavorativa e creatività, desiderosi di viaggiare/apprendere/ibridarsi su nuovi traguardi. Va loro garantita un’educazione di alta qualità e senza frontiere: il calcolo non può essere fatto a livello nazionale ma europeo. Questo è certamente un obiettivo della Ue: un Erasmus per tutti (oggi raggiunge meno del 10% dei giovani studenti), inclusi i Neet e i giovani lavoratori.

In Italia si fa presto a comprenderlo: non ci si può davvero più limitare a discutere se sia giusto o no che i nostri giovani vadano a fare i bagnini o a piantare ombrelloni d’estate… o se si possa accettare uno stipendio di 280 euro al mese. Inutile lamentarsi poi del Reddito di cittadinanza, ovvio. Mediante un sistema Erasmus riformato e allargato, apriamo il mercato del lavoro giovanile a tutt’Europa, con le dovute giuste garanzie da parte Ue in termini di salario, tempi di lavoro ecc. Dall’altro lato occorre finalmente una politica europea di assistenza all’età anziana (e ai fragili in genere, comprese le persone con disabilità ecc.) basata sulla domiciliarità: un modo per riconnettere il territorio alle persone sfuggendo l’istituzionalizzazione che deve rimanere un ricorso limite. Tutto ciò fa anche risparmiare gli Stati e può essere un percorso utile per i governi europei al fine di evitare lo scontro tra generazioni creando un’alleanza win win.

Sulla seconda ipotesi va in scena il settore privato. Allearsi tra creatori di valore e, senza nemmeno il bisogno di dirlo, battersi contro sprechi, privilegi e rendite di posizione, sembra facile e intuitivo ma non lo è. Innanzi tutto va detto che sarà possibile sostituire i settori protetti con altri, dove viga una maggior libertà di investimento e di intrapresa, soltanto se questi ultimi avranno dimostrato la loro superiorità e convenienza in materia di creazione di valore e garanzie. Non è sempre così, anzi, e la diffidenza dei lavoratori verso nuove forme di lavoro “flessibile” è – purtroppo – ben giustificata. Qui il settore privato deve farsi un serio esame di coscienza: accusare solo lo statalismo non basta più. A ciascuno sarebbe piaciuto un mondo perfetto in cui la libera concorrenza avrebbe migliorato il mercato ma constatiamo che era una bugia o quasi. Il risultato di trenta-quarant’anni di iperliberismo ci ha consegnato un mondo più diseguale, in cui il lavoro è meno garantito, meno rispettato e più sfruttato. Ciò è – ribadisco il purtroppo – vero dovunque, anche nelle nostre democrazie pur se a un livello minore.

In Italia ci sono state forse le resistenze più coriacee dove un certo resiliente statalismo e alcuni privilegi di categoria sono riusciti a proteggersi meglio che altrove. Ciò ha contribuito ad un sistema migliore, più giusto e più egualitario? Certamente no. Tuttavia tale reazione si spiega guardano al desolante panorama del lavoro oggi. Così come non possono accettare la guerra tra generazioni, le nostre democrazie devono rifiutare quella tra lavoratori garantiti e precari. Si deve dire la verità tutta intera: non è togliendo garanzie ai già garantiti che si aiuteranno i precari. Allo stesso modo non è moltiplicando i precari che si migliorerà il mercato del lavoro.

Lo si vede in tutt’Europa, anche nella Germania dei mini-jobs. In Italia ci sono circa 21 milioni di lavoratori a tempo indeterminato e circa 3 o 4 milioni di precari (non abbiamo nemmeno cifre precise). Poi c’è il terribile lavoro nero, sommerso o come dir si voglia: il vero cancro tutto italiano. Ci siamo crogiolati nel credere che il sommerso fosse una caratteristica italica quasi positiva, quel rizoma economico tipico della creatività italiana che permetteva di intercettare più facilmente i cicli della crescita ecc. ecc. È stato uno spaventoso abbaglio che (oltre ad abbassare la soglia etica generale del Paese) ha depresso il mercato del lavoro, consegnandolo spesso nelle mani delle mafie.

Di conseguenza ci ritroviamo con i lavoratori a tempo indeterminato con gli stipendi tra i più bassi d’Europa, costretti a confrontarsi con un fisco rigido che sono loro a pagare interamente. Per non parlare di ciò che accade ai precari non sommersi (vogliamo ricordare lo scandalo degli scontrinisti della Biblioteca nazionale centrale?). Si è allo stesso tempo ingenerata diseguaglianza e diffidenza nei confronti di uno Stato che resta arcigno solo con chi vive di stipendio pubblico e chiude troppi occhi su chi naviga nel settore sommerso e del nero.

Ecco perché ti puoi aspettare poca efficienza e produttività in ricambio. Quando c’è stata l’emergenza Covid il settore sanitario (tanto vituperato come una delle categorie corporative di lavativi) è divenuto improvvisamente necessario e addirittura eroico… Come si spiega tutto ciò? Paradossalmente la pandemia sarebbe stata, con il lockdown, la giusta occasione per chiudere una volta per tutte questa guerra tra “creatori di valore”: costringere i privati che volevano (giustamente) sussidi e ristori, a mettere in regola subito tutti i lavoratori. In cambio lo Stato avrebbe dato i sussidi come se lo fossero stati dati da prima.

Invece moltissimi hanno preferito non ricevere quasi nulla (non potevano dichiarare nulla o quasi, visto che avevano tutti al nero) magari andandosi poi a lamentare alla Tv. Per costruire seriamente l’alleanza auspicata da Magatti tra creatori di valore, non bisogna assolutamente proseguire con questa guerra italica tra (presunti) buoni e cattivi del mercato del lavoro e della produttività. Occorre invece iniziare obbligatoriamente dal distruggere la possibilità del lavoro nero (e delle mafie ad esso connesse). Il nero (sommerso o irregolare o informale ecc.) va eliminato dal nostro Paese per una connessa esigenza di moralità, legalità e produttività. Serviranno forse nuovi contratti atipici, nuove forme di assunzione ma tale strada è obbligata. L’alternativa è affondare nel fango dell’informale, come capita alle economie in via di sviluppo. Come democrazia europea, ciò a cui dobbiamo mirare non è soltanto il profitto ma la stabilità sociale prodotta da un mercato del lavoro sano. Così ci sarà la fine dei privilegi, non in altro modo.

Infine l’alleanza più difficile: quella della sostenibilità e cioè transizione e giustizia sociale al contempo. L’Europa non ha voluto compiere la transizione energetica trent’anni fa ed ora si trova ingabbiata tra il basso prezzo del gas russo e il costoso Gpl americano o arabo (che costa 5 volte tanto). Andare ora al nucleare come vorrebbe qualcuno non è ragionevole: troppo tempo, troppo caro, troppo anti-green (le scorie) e troppe incertezze sulla sicurezza. Non resta che accelerare la transizione verso le rinnovabili sapendo che dovremo soffrire per alcuni anni. La ricerca tecnologica sulle energie alternative deve fare un salto e correre come ha fatto quella medica con i vaccini. Per questo ci vuole un forte investimento comune e l’Europa può farlo se si muove tutta insieme. Contemporaneamente va immaginata la società del futuro: più giusta e con meno sprechi. L’acqua che ci manca ora con la siccità va preservata, stoccata, meglio utilizzata. L’agricoltura va cambiata per usare meno acqua e meno fertilizzanti chimici. Paesi più aridi dei nostri ci sono riusciti (Israele ad esempio): può farlo anche l’Europa. Va cambiata l’alimentazione e l’uso della natura in genere. Malgrado tutti i nostri difetti, il nostro continente assieme al nord America è ancora quello più protetto a livello naturale, niente a che vedere con le devastazioni naturalistiche africane, latinoamericane o, peggio ancora, asiatiche. Possiamo fare molto e ottenere da questa enorme transizione una vera nuova giustizia ecologica e umana.

È ciò che predica papa Francesco nella Laudato Si’ e nella Fratelli Tutti: più giustizia per l’uomo e per l’ambiente crescono assieme. La guerra in Ucraina sembra gettarci all’indietro ma non dobbiamo permetterle di lasciarci sopraffare riaprendo centrali a carbone o cose simili. Mediante un’attenta politica condivisa e solidale, tra europei dobbiamo redistribuirci l’energia che c’è, per il tempo che serve, per i servizi essenziali. Il settore privato dovrà sforzarsi di trovare le forme tecnologiche più avanzate per produrre meglio utilizzandone meno: è ciò su cui migliaia di ricercatori europei studiano da anni e occorre finanziarli.

Sappiamo che le nostre democrazie sono a rischio destabilizzazione, obiettivo che si sono dati gli autoritarismi aggressivi. Ma questi ultimi non hanno alcuna risposta da offrire per i problemi globali della sostenibilità del pianeta, e tornano a vecchie formule. Mossi da un revanscismo degno di miglior causa, cercano soltanto di impedire l’unipolarità (come la chiamano) del mondo occidentale. Per reagire a tale ostile emotività geopolitica, la cosa peggiore da fare è accettare lo scontro armato: è ciò che gli autoritarismi vorrebbero, portarci cioè sul loro terreno dove tutto si confonde e diventa più facile accusare l’Occidente di arroganza.

È una trappola: difendersi è lecito ma senza mai giungere al limite del rischio di guerra globale o – peggio ancora – nucleare, come è stato minacciato. È dunque necessario per le democrazie europee non deflettere dalla ricerca di risposte globali alle minacce del futuro, che vanno tuttavia offerte a tutti. Il cattivo esempio dell’accaparramento dei vaccini non deve ripetersi.

In questo senso c’è un quarta alleanza da fare: quella multilaterale sulla sostenibilità globale, sia quella della pace che dell’ambiente, dell’energia e delle risorse (dei common goods). Attualmente la guerra ci sta portando lontano da tale obiettivo, verso un moltiplicarsi di conflitti: guerra del gas o dei tubi, del grano o delle risorse alimentari ecc. Non possiamo accettarla e per questo occorre distinguersi, mantenendo la barra dritta verso una risposta globale, cooperativa e solidale anche con quelle parti di mondo che non si schierano. Solo la cooperazione è convincente e riporta la fiducia che ora manca nelle relazioni internazionali.

In conclusione: la costruzione di un nuovo centro non basato sui ceti e sulla mediazione dei rispettivi interessi di parte, né solo sulla dialettica Stato-mercato o pubblico-privato, deve divenire una costruzione dinamica. Si deve iniziare dal comprendere le ragioni della staticità, dell’arroccarsi e dell’essersi posti sulla difensiva di interi ceti sociali (o parte di essi). Quando tutto sta cambiando ma non c’è una direzione precisa né un disegno convincente in cui ci sia spazio per tutti, è quasi naturale rifiutare ogni cambiamento e proteggere l’acquisito. È il famoso “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”: non solo una caratteristica italiana, basta guardare ai fenomeni sociali di protesta negli altri Paesi europei. Non abbiamo bisogno di nuove lacerazioni ma di una nuova comprensione reciproca: questo è il metodo del dialogo politico che un centro – di sostanza e non di forma – dovrebbe incarnare nella politica e nella società. Per superare gli interessi legati alla rendita e ai trasferimenti pubblici, cioè per andare oltre alla “società signorile di massa” di cui scrive Luca Ricolfi, occorre una dose di fiducia che i cittadini elettori difficilmente oggi danno senza esserne ragionevolmente certi.

Ciò che va ricostruita prima di tutto è la fiducia in un futuro comune, in mancanza della quale emerge il fenomeno dell’astensione dal voto (in Italia meno grave che altrove): essa esprime l’attesa di qualcosa che ancora non c’è. Nell’Europa contemporanea esiste sicuramente la possibilità di un’offerta politica di “centro” che non sia protettiva e conservativa e che sappia mettere saggiamente insieme “cose nuove e cose antiche”. È ciò che desidera l’elettorato democratico dei nostri Paesi. Un argomento preliminare davvero convincente è ciò che va ripetendo papa Francesco: “non ci si salva da soli” e “siamo tutti sulla stessa barca” che ciascuno intuitivamente comprende. Restano da trovare le forze politiche e i leader che sappiano incarnare tale visione comune e unitiva. Come diceva Aldo Moro: “La politica è certamente anche convenienza ma non è mai soltanto pura convenienza”. Per ricostruire un Paese e un intero continente occorrono politici che si ispirino a tale semplice e pragmatica verità.


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