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Il conto della pandemia lo paga (anche) Pechino. La crescita cinese si ferma

Dopo l’exploit del primo trimestre, tra aprile e giugno il Pil cinese è cresciuto solo dello 0,4%, registrando una frenata con pochi precedenti. L’Ufficio di statistica ammette le responsabilità della strategia zero-Covid. E ora lo spettro stagflazione si fa sempre più vicino

Bisogna essere onesti, non ci si poteva aspettare qualcosa di molto diverso. Mesi di feroci lockdown, milioni di cittadini murati vivi in casa, imprese chiuse, porti bloccati, non potevano non assestare un colpo micidiale alla seconda economia globale. Se poi ci si mettono anche la crisi immobiliare e quella delle banche, non c’è da stupirsi. La Cina ha finito la benzina e ora paga il conto di una strategia zero-Covid, come piaceva chiamarla a Pechino, che è stata più un fallimento che altro.

I numeri diffusi dall’ufficio di Statistica del Dragone, che hanno immediatamente trascinato al ribasso i principali listini asiatici, non lasciano troppo spazio all’immaginazione. Nel secondo trimestre, infatti, il Pil della Cina è cresciuto appena dello 0,4%, per colpa, parola dello stesso dipartimento cinese, delle restrizioni imposte dal governo per frenare l’epidemia da Covid. Si tratta del ritmo di espansione più lento dalla contrazione nel primo trimestre del 2020, quando è emersa l’epidemia di coronavirus a Wuhan.

L’agenzia di statistica cinese ha evidenziato che la pressione al ribasso sull’economia è aumentata in modo significativo a partire dal trimestre di giugno, con gravi impatti da fattori imprevisti. “Le basi di una ripresa economica sostenuta non sono stabili tra l’aumento dei rischi di inflazione a livello globale, l’inasprimento delle politiche monetarie nelle principali economie e l’impatto dei focolai di virus interni”. Tanto per farsi un’idea, a Shanghai, città simbolo dei drammatici lockdown cinesi, il Pil ha mostrato una contrazione del 13,7%. E pensare che nel primo trimestre, il Pil della Cina era cresciuto del 4,8%. Il mondo era rimasto a bocca aperta, ma forse era più un rimbalzo dopo l’annus horribilis del 2020.

A questo punto il target di crescita per il 2022 fissato dal governo, un +5,5%, è messo seriamente a rischio. E non è certo un buon biglietto da visita per Xi Jinping, artefice di quelle strategie che hanno tagliato le gambe alla crescita, in vista del XX Congresso del partito comunista, il prossimo autunno, nel quale il leader cinese punta alla rielezione. Ora, c’è un altro problema, un problema chiamato stagflazione. Il Dragone infatti non sembra essere immune da un virus non meno subdolo del Covid, l’inflazione. I prezzi al consumo in Cina sono in continua crescita e solo lo scorso maggio si è registrato un aumento del 2,1% su base annua. Così facendo, la crescita rischia di non riuscire a tenere il passo del costo della vita, dando vita a quel fenomeno temuto più di ogni altra cosa.

Certo, c’è sempre la Banca centrale (Pboc), pronta a intervenire per sostenere la crescita e agganciarla all’inflazione, immettendo liquidità nel sistema. Ma basterà? Per il momento un fatto è certo, i mercati finanziari cinesi sono inquieti, le azioni del Dragone in altalena, mentre lo yuan è sceso al minimo negli ultimi i due mesi.

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