Dopo una settimana di vertici l’Occidente serra i ranghi sulla guerra in Ucraina ma ne rimane anche vittima. Serve un end-game per fermare al più presto Putin, altro che umiliarlo. Ma intanto cinque fantasie sono state smontate. Il commento dell’ambasciatore Stefano Stefanini
L’Occidente serra le fila; Europa e Stati Uniti si avvicinano; l’Atlantico si apre all’Indo-Pacifico. È fuori dubbio che questi siano i segnali che emergono da una settimana di vertici di rara univocità. Ma, calato il sipario sul tour de force diplomatico Unione europea-G7-Nato, quali saranno seguiti?
Il sipario non è calato sulla guerra ucraina. La pioggia di missili su centri abitati continua, anzi ha dato l’impressione di essere la rozza e intenzionale risposta del Cremlino alla solidarietà occidentale con Kiev. Il centro commerciale di Kremenchuk è stato colpito mentre Bruxelles riconosceva lo status di candidato a Kiev e Chisinau. Coincidenza? In alcuni ambienti russi, c’è sempre stata ammirazione per la saga del Padrino…
Perdente in relazioni internazionali Vladimir Putin cerca di rifarsi con la guerra. Del resto è una scelta fatta da tempo, e sancita dall’invasione del 24 febbraio. Fra negoziati – glieli chiedeva Volodymyr Zelensky, insisteva Emmanuel Macron, Washington era pronta – e carri armati, il Presidente russo ha optato per i secondi. Non ha mai cambiato idea. Senza sminuire assolutamente l’importanza dei concordi messaggi Ue-G7-Nato, il problema immediato rimane come fermare Putin in Ucraina. Lo scenario del dopo guerra dipende da come e quando finisce la guerra. Mosca si accontenta di macerie purché vi sventoli sopra la bandiera russa; l’Europa è pronta a sostenerne la ricostruzione purché la bandiera sia ucraina.
Il sostegno a Kiev per difendersi dall’aggressione resta la priorità immediata, come Zelensky non manca mai di ricordare. Comprensibilmente, visto che è presidente di una nazione e di una popolazione sotto attacco e sotto bombe. Monotono forse, ma proviamo a metterci nei suoi panni. Da parte europea e occidentale, questo sostegno può realizzarsi in tre forme: politica; con forniture militari; intervenendo direttamente.
La terza era, ed è, stata ripetutamente esclusa. I leader hanno notevolmente rafforzato il sostegno politico, in particolare con la concessione dello status di candidato Ue; hanno annunciato, soprattutto Joe Biden, accresciuti aiuti militari. C’è quindi un diretto rafforzamento ucraino anche nel conflitto con Mosca ma incrementale e non decisivo. Le sorti della guerra restano in bilico, le prospettive di pace nebulose, anche perche’ nessuno sa fin dove vuole arrivare Putin. Quanto agli ucraini, Zelensky non può accettare un patto leonino; tanto meno possiamo noi dirgli di farlo.
Lo scossone geopolitico dei tre vertici, articolato in particolare nel nuovo concetto strategico della Nato, ha portata più ampia del conflitto in Ucraina ma, al tempo stesso, ne è ostaggio. Il contenimento della Russia comincia dall’Ucraina. Il problema non è di “non umiliare” Putin. È di fermarlo.
Qui c’è una iato fra i tempi brevi della guerra, dove guadagni, perdite, costi e sacrifici si misurano giorno per giorno, e i tempi medio-lunghi delle sanzioni economiche che sono l’arma principale di cui si avvale l’Occidente per mettere dotto pressione Mosca. La Russia finora ha tenuto, forse al di là delle previsioni. Alla lunga? Il segnale dei vertici è che il braccio di ferro economico è una prova di resistenza. Tradotto: le sanzioni non si toccano anche quando ci sarà un cessate il fuoco; se ne potrà parlare solo in un contesto di accordo di pace, prospettiva al momento remota. Idem, sulla dipendenza energetica: lo sganciamento dalla Russia sarà graduale, specie per il gas, ma irreversibile.
Nasce così una strategia sulla Russia su tre assi: sostegno all’Ucraina nella guerra; “punizione” economica; deterrenza militare. Nell’attuarla sarà essenziale il gioco di squadra. L’assistenza militare è nazionale. Le sanzioni sono affidate soprattutto all’Ue. La deterrenza è responsabilità della Nato che riacquista un ruolo insostituibile nella difesa dell’Europa. Scegliendo la Nato, Svezia e Finlandia dimostrano che quando è in gioco o a rischio la sicurezza nazionale, non ci sono alternative realistiche all’Alleanza atlantica. La decisione, lineare e democratica, di due Paesi che avevano a lungo coltivato la neutralità, anche durante la Guerra fredda, dovrebbe mettere definitivamente una pietra sopra una serie di sterili equivoci e fantasie. In particolare:
- Gli americani rimangono in Europa (in realtà non se ne erano mai andati) perché è una delle due principali dimensioni della loro stessa sicurezza.
- Gli europei riconoscono che l’impegno americano per l’Atlantico, che li protegge, deve essere bilanciato da quello, obiettivamente crescente causa l’ascesa della Cina, per l’Indo-Pacifico.
- Di conseguenza, gli europei si assumono più responsabilità e oneri di difesa in Europa in maniera da alleggerire gli americani su questo versante. Inoltre, mettono sul loro schermo anche il quadrante Indo-Pacifico. Più che mandando in crociera occasionale qualche portaerei, prendendo sul serio la sfida economica e tecnologica di Pechino come sta facendo l’Ue.
- Abbandonate le illusioni di “autonomia strategica” in campo sicurezza – che “autonomia” è se gli europei hanno bisogno degli americani per fronteggiare la Russia, principale minaccia alla stabilità continentale? – la difesa europea deve occupare gli spazi dove la Nato non vuole o può entrare, ad esempio con missioni a componente mista militare-civile e mettendo a fuoco il vicinato mediterraneo e africano.
- La difesa europea ha bisogno del contributo del Regno Unito. Bruxelles e Londra devono fare uno sforzo di collaborazioni innovative. Il prepotente ritorno di una minaccia militare russa mette i britannici di fronte alla dipendenza della loro sicurezza da quella dell’Europa. Brexit o non Brexit, la geografia non mente.