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Cosa resta della democrazia tunisina dopo il referendum di Saied

Secondo Melcangi (Sapienza/Atlantic Council), le modifiche costituzionali che rafforzano il potere del presidente Saied potrebbero creare una maggiore polarizzazione all’interno della Tunisia. E intanto la democrazia arretra ancora in Nordafrica

Il 27,5% dei tunisini è andato a votare per il referendum costituzionale che stravolgerà la forma di Stato che il Paese aveva raggiunto dal 2014 a oggi, trasformandolo in un iper-presidenzialismo che sposta tutti i poteri sull’attuale capo di stato, Kais Saied. L’affluenza non è stata alta, ma il risultato favorevole alla riforma praticamente totale, oltre al 90%. In assenza di quorum, Saied rilancia il successo, frutto di un percorso innescato il 25 luglio dello scorso anno e sfociato nella rivoluzione referendaria – dopo la sospensione delle attività parlamentari e la subordinazione di quelle dell’esecutivo sotto il suo controllo.

La Tunisia è stata il luogo di nascita della Primavera araba e l’unica democrazia a uscirne positivamente, almeno per una fase della sua storia. Ma l’entusiasmo per la democrazia è diminuito nel tempo a causa delle disfunzioni del governo, della corruzione dei partiti e delle difficoltà economiche (conseguenza anche di fattori esterni, come la pandemia o la guerra russa in Ucraina).

Quando un anno fa Saied ha sciolto unilateralmente il governo e ha iniziato a governare per decreto, molti tunisini hanno reagito allarmati percependo il ritorno di una stagione autoritaria. Ma molti lo hanno accolto con favore. Saied, ex professore di diritto costituzionale prima di candidarsi alla presidenza nel 2019, ha avuto dalla sua una spinta narrativa legata alla competenza e all’austerità personale. Valori usati come narrazione contro la corruzione, su cui ha impostato gran parte della sua azione politica.

Secondo Alessia Melcangi, docente di Storia contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente alla Sapienza di Roma e non-resident snior fellow dell’Atlantic Council, ciò che ci dà la misura riguardo al futuro tunisino è l’affluenza al referendum. “Non è alta, vero, ma non è così tanto bassa da dirci che Saied non ha più appoggio”, spiega in una conversazione con Formiche.net.

“Da quando è stato eletto alla mossa successiva sulla stretta autoritaria, il presidente tunisino non ha perso troppo consenso – continua – e questo perché è una voce fuori dal coro, si è manifestato come anti-sistema mentre quel sistema era paralizzato, contro gli accordi larghi che hanno intrappolato il Paese in una situazione che non evolveva, contro la corruzione e per sbloccare lo stallo: e questo è chiaramente un manifesto molto attraente”.

L’agenda politica di Saied è stata sempre piuttosto populista, di facile accesso per ampie fette di elettorato scontente, però c’è una realtà con cui fare i conti: la crisi economica. “La Tunisia – continua Melcangi – ha diversi problemi, tra le altre cose è uno dei Paesi più colpiti anche dalla crisi alimentare innescata dal conflitto russo in Ucraina, mentre ora arriva il potenziale intervento dell’IMF (il Fondo monetario internazionale, ndr), che chiede dialogo largo tra i vari fronti politici e austerità”.

L’austerità significa innanzitutto la riduzione (o l’eliminazione addirittura) dei vari, tanti sussidi, e questo potrebbe portarsi dietro la perdita di consensi. I sindacati sono stati già piuttosto chiari su questo. Saied può basarsi su un suo sostegno popolare che ancora resta, “ma deve considerare che la situazione economica adesso è sotto i riflettori (sia internazionali che interni)”.

La nuova carta che esce dagli emendamenti passati dal referendum è stata oggetto di diverse critiche, sia interne che esterne, proprio per la stretta sul potere presidenziale. Davanti a questo servono risultati. Restano fattori di equilibrio, come per esempio il diritto allo sciopero, “tuttavia, la magistratura, la polizia e l’esercito non possono attuare tale misura. In ottica presidenziale, si può interpretare questa decisione come una forma di assicurazione del Presidente stesso che nessuno degli attori più influenti della società tunisina si opponga alla sua figura”, spiega un’analisi del CeSI.

“Ora il rischio è che si polarizzi la società, perché mentre c’è una parte di persone che fanno rumore nel sostenere ancora il presidente, all’interno della Tunisia c’è tanta insoddisfazione: il banco di prova c’è, ed è la risoluzione della situazione economica. Se riesce, potrà rivendicare successi, altrimenti la situazione potrebbe complicarsi”, aggiunge Melcangi.

Questa autorevolezza (la stessa che lo ha portato alla presidenza) va inoltre inserita in una dei flussi popolari del momento. Il sentimento secondo cui la democrazia non sta dando risultati esiste ben oltre la Tunisia, come hanno dimostrato i sondaggi di Pew, e potrebbe essere esacerbato dall’attuale caos economico mondiale. Secondo Freedom House, la democrazia globale è già in declino da 16 anni.

Per comprendere certe dinamiche in Nordafrica, occorre tornare indietro al periodo post-coloniale, secondo Melcangi, in cui si è stipulato il patto sociale all’interno di vari Paesi della regione. “In quella fase, tutti i leader politici che hanno guidato gli Stati post-coloniali erano forti personalità, simboli del movimento di indipendenza, uomini carismatici pronti a intestarsi la battaglia al fianco del popolo per ricreare uno stato, un’idea nazionale e un’economia in grado di sostenere le esigenze della popolazione (prima attraverso politiche socialiste e poi liberalizzazioni). Quei leader, intestandosi il destino della nazione, chiedevano sostegno promettendo di far rinascere lo stato delle ceneri coloniali”.

Con il passare degli anni però sono emerse le varie crepe (le crisi economiche, le strette autoritarie) che hanno rotto quel patto sociale, portando a un processo lungo sfociato un decennio fa nelle Primavere arabe, dove il popolo – esausto dalla pratica neopatrimoniale di gestione dello stato e da mere liberalizzazioni di facciata – ha scatenato le proprie richieste e ambizioni in moti di protesta.

E adesso? “Gli esiti a distanza di un decennio ci raccontano una realtà amara, perché si sono innescate delle contro-rivoluzioni che hanno ricostruito, non solo in Tunisia, qualcosa di simile a quello precedente alle Primavere. Ma non possiamo dire in assoluto che questi Paesi hanno smarrito il percorso verso la democrazia, sarebbe una semplificazione: hanno anzi appreso molto da queste esperienze, come le complessità interne alla stessa Tunisia raccontano al di là del voto referendario”.

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