L’uscita di Draghi ha lasciato macerie non indifferenti perché l’antipopulismo è un potente unguento che sana laddove il senso di responsabilità latita e suppura
Sono stati 18 mesi che hanno squassato il panorama politico. Mario Draghi è arrivato a Palazzo Chigi come un ciclone e ha scompagnato gli schieramenti e le leadership che avevano animato fino a quel momento la legislatura, finite però in un vicolo cieco. SuperMario ha terremotato il Palazzo e più che i suoi provvedimenti e il suo programma hanno spaventato la sua statura internazionale; quel possedere un curriculum e uno spessore capace di consentirgli di essere immune ai giochi e alle trappole dei partiti. Insomma, fin dal primo momento è apparso chiaro che non era condizionabile: una sorta di alieno circondato da un’aura per molti insopportabile prima che inconcepibile. Il massimo dell’antipopulismo nel Parlamento più marcatamente populista di sempre: come potevano amalgamarsi? E come poteva essere digeribile la possibilità di portare SuperMario lassù in cima alle istituzioni?
Ma proprio per questo la sua uscita ha lasciato macerie non indifferenti perché l’antipopulismo è un potente unguento che sana laddove il senso di responsabilità latita e suppura. Così nei 18 mesi che hanno cambiato il volto della legislatura l’espressione più genuina di quel misto di demagogia e populismo che aveva stravinto le elezioni del 2018, cioè il MoVimento 5 Stelle, si è sbriciolato colpito al cuore dall’azione di quello stesso governo di cui pure faceva parte e che per ultimo non ha potuto che affondare. Oggi l’invincibile armada grillina è il fantasma di quello che fu, viaggia sotto il 10 per cento e non ha più alleati ma solo antagonisti.
Di conseguenza le scelte coraggiose e lungimiranti fatte da Enrico Letta a partire non dall’adozione della “agenda Draghi” – che è un’araba fenice che avrebbe mandato in sollucchero il Metastasio – quanto dalle indicazioni sulla politica estera, con l’appoggio senza se e senza ma alla lotta dell’Ucraina contro l’invasore russo, hanno divelto quel campo largo a lungo arato dalla coppia Nicola Zingaretti–Goffredo Bettini, lasciando solo qualche arbusto rinsecchito. È chiaro che una decisione di tal fatta modifica in profondità l’agibilità politica del Partito democratico in quanto lo priva di una strategia seppur ne rafforza il profilo identitario. Ma nel caotico mare della politica italiana navigare da soli è rischioso. Divelto l’asse con Giuseppe Conte, ex punto di riferimento fortissimo del progressismo ora ridotto a infido e inaffidabile capopartito, guardandosi intorno il Nazareno non trova che egolatrie e ex nemici assai difficili da gestire. La corsa solitaria verso le urne può affascinare, posto che se ne comprendano e se ne accettino fino in fondo le conseguenze.
Diciotto mesi di draghismo senza limitismo hanno gonfiato il petto di forze centriste con pedigree antico, altre di nuovo, e sprezzante verso gli altri, conio; e altre ancora, infine, di novella e dunque elettoralmente ultra gracile costituzione e consistenza. È il segmento politico su cui la ricetta Draghi, qualunque cosa significhi, ha inciso più profondamente. Ma è anche quella che, evaporato il detentore della ragione sociale, è in cerca di autore. Al momento senza trovarlo e niente lascia intendere che alla fine lo scoverà.
Per non parlare del centrismo del centrodestra, condensato in quella Forza Italia che il suo creatore considera elemento proprio e intoccabile, animato dalla ricetta che funzionò trent’anni fa e che adesso vuole riproporre con qualche spolveratina di verde boschivo. Un pezzo di quella creatura è stata sedotta dall’azione di governo di Draghi e ha preferito abbandonare la casa del padre. Per andare dove non è ancora chiaro e chissà se sotto l’ombrellone quel po’ di frescura che c’è porti a determinazioni praticabili. Ma i tre ministri che hanno cancellato dallo loro Google Maps l’indirizzo di Villa Grande sono un segnale di smottamento che sarebbe sciocco trascurare.
Infine lo schieramento che si infilato come coltello nel burro nelle contraddizioni pentastellate approfittando del ponte levatoio abbassato da Conte verso la cittadella governativa per espugnarlo con le sue truppe fino al punto di costringerlo alla resa. Ci sono un sacco di sorrisi dalle parti del centrodestra ora non più di governo ma solo di lotta, però sono come i serpenti sotto le foglie. In tanti cercano rivincite, da Silvio Berlusconi che vuole presiedere il Senato se non ancora una volta il governo, a Matteo Salvini che vuole togliersi una volta per tutte l’etichetta del Papeete che gli mascaria il viso, fino a Giorgia Meloni, considerata per tanto tempo dagli altri due una specie di ruota di scorta e che adesso, forte del consenso, è decisa a sedersi nella cabina di guida del Tir che deve portarla a Palazzo Chigi. Niente illusioni: anche qui il draghismo ha colpito mettendo paletti specifici sul Pnrr e sulle alleanze in seno all’Unione europea. Gialloverde è stato il colore più di moda a inizio legislatura e gialloverde il colore dell’abito che ne ha decretato il de profundis. Ma adesso c’è Giorgia, e sarà un’altra musica. Senza Draghi l’Italia è più debole ma noi siamo il Paese che ama il falò delle proprie ambizioni e continuamente lo alimenta.