All’evento organizzato da Comin&partners si è discusso di come le autorità e la stampa sono chiamati a rispondere alla diffusione delle notizie false, che minano la verità e le democrazie. Per riuscirci, bisogna prendere atto che l’intero settore è in piena trasformazione: se sarà positiva, dipende da noi
Prima la pandemia e poi la guerra, solo per citare gli ultimi due grandi eventi, hanno posto il giornalismo di fronte a un dilemma solo all’apparenza dalla facile risposta: come raccontare certi tipi di notizie? È giusto raccogliere l’opinione di tutti, anche di quelle minoranze poco attendibili e dalle tesi fuorvianti? Se lo sono chiesto anche gli ospiti dell’evento “Informazione e fake news, il ruolo del giornalismo e delle istituzioni”, organizzato a Roma da Comin&Partners e moderato da Maria Concetta Mattei, direttrice della Scuola di giornalismo della Rai a Perugia.
“Dobbiamo tenere in considerazione che l’informazione non è più il giornalismo”, esordisce il direttore Enrico Mentana, uno dei primi a schierarsi in prima linea contro chiunque voglia negare la realtà oggettiva dei fatti. “Ci siamo trovati di fronte al fenomeno delle fake news e abbiamo creduto che potevamo smontarlo e denunciandolo. Ma siamo entrati in una fase successiva, quella dei contestatori secondo cui ogni affermazione è contendibile”, continua il direttore. “Nel mondo si può dire tutto perché nessuno riconosce più l’autorità”.
A fungere da megafono a tutte le teorie sono anche i talk show, che ragionano secondo “una logica che non è più giornalistica”, spiega Mentana. Seppur riconoscendo un intento lodevole di far sentire allo spettatore voci diverse, per il direttore del Tg La7 programmi simili “rendono contendibile ciò che dovrebbe essere assodato, a discapito di convenzioni che il mondo e la nostra società hanno preservato per millenni”.
Un’idea condivisa anche dalla giornalista di Rai 1 e conduttrice di Oggi è un altro giorno, Serena Bortone, che ha evidenziato la differenza che corre tra un programma – non solo di informazione, ma anche di intrattenimento – e un blog o i contenuti che passano su canali molto utilizzati ma non autorevoli, come Telegram. “Quando si parla di coniugare informazione e intrattenimento, non esiste un discrimine tra i due mondi. La credibilità si conquista nel tempo, solo tenendo a mente che il ruolo del giornalismo è sempre quello di verificare i fatti”. Pertanto, non c’è un approccio differente quando si deve raccontare, altrimenti si rischia che le due strade (quella della comunicazione ufficiale e quella dei social, che appartiene a tutti) si sovrappongano. “I complottisti sono sempre esistiti”, spiega, “ma oggi ancor di più perché sono spariti i riferimenti”. Che siano la scuola, l’associazione di categoria, i sindacati o i partiti, serve “educare i ragazzi per avere una classe dirigente valida”.
La televisione, tuttavia, non è l’unico campo che, come scritto, è molto più ampio. Ad accelerare l’allargamento è stato Internet, che dietro si è portato tanti aspetti positivi, come la possibilità di rimanere informati ovunque, ma anche di negativi, come l’imbattersi in storie di pura fantasia spacciate per verità assoluta. Non è un caso che, come ricorda la direttrice Mattei, i dati ci mostrano una realtà preoccupante: il 63% dei giovani cade ogni settimana in una notizia falsa, mentre poco più della metà è stato esposto alla disinformazione online almeno una volta. Tuttavia, il problema delle fake news è sempre esistito. La differenza con quello che sta accadendo oggi, sottolinea il commissario dell’Agcom Antonello Giacomelli, è che adesso esistono “vere e proprie ramificazioni” che puntano alla destabilizzazione dei sistemi attraverso notizie fuorvianti.
Soprattutto quelli democratici. “La rete ha introdotto una nuova logica, quello dello sharing, mettendo in crisi la verità”, riflette Francesco Occhetta, giornalista e scrittore gesuita. “Se funziona”, prosegue nella sua riflessione, “allora sarebbe il massimo della scoperta per l’essere umano”. Il problema, piuttosto, è quando questa logica va in cortocircuito. In quel caso, “le persone hanno paura e si appellano a credenze”. Qualsiasi tipo di credenza, anche quelle più disparate e assurde, purché dicano ciò che uno si vuole sentir dire. Che sia falso o meno, poco importa. La fake news, per sintetizzarla, altro non è che “un frutto velenoso per la democrazia”, che nascono nel campo della post verità. “I fatti oggettivi”, afferma Occhetta citando la definizione del termine, “sono meno influenti nel formare la pubblica opinioni degli appelli alle emozioni personali. Per salvaguardare la democrazia abbiamo davanti due strade: costruire una coscienza sociale per distinguere vero e falso e rilanciare il servizio pubblico”, conclude.
Per scardinare questo mondo parallelo che si è andato via via a creare, servono quindi singole azioni da parte di ogni addetto ai lavori per arrivare a un movimento collettivo. “Non credo molto al giornalismo militante, ma piuttosto a quello del giornalismo anglosassone che divide i fatti dalle opinioni”, afferma Massimo Mapelli, giornalista di La7 e autore del libro Ad alta voce. Vita da giornalista, sul campo e dietro le quinte, edito da Baldini e Castoldi. “È ovviamente difficile, perché è una corsa a ostacoli, ma è l’unica possibilità”, continua Mapelli che riflette sul cambiamento in corso, con l’era del tempo reale che “impone verifiche istantanee. Proliferano i radicalismi, per contrastarli serve fare affidamento sui fondamentali del giornalismo”.
Non è ancora chiaro se la trasformazione che sta interessando il settore dell’informazione porti a un effettivo progresso. Certo è che la concezione novecentesca che vede il giornalista come unico addetto a riportare le notizie è ormai superata, se non da tutti i lettori sicuramente dalla fascia più giovane. Sono cambiati i mezzi e gli strumenti per informare, questo è chiaro, ma non la funzione primaria: riportare la verità. Che poi a qualcuno non piaccia, non è compito del giornalismo.