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Draghi-Conte, focolai di tensione che non giovano a nessuno. Il mosaico di Fusi

Comunque andrà oggi, i prossimi mesi risulteranno assai accidentati. Se davvero ancora una volta prevalesse la melassa negoziale, Draghi andrà avanti sempre più ammaccato dagli interessi dei partiti e perdendo un pezzo della sua autorevolezza: viatico micidiale in vista della legge di Stabilità da predisporre entro settembre. La rubrica di Carlo Fusi

Salvo nuovi rinvii per vere o presunte cause di forza maggiore, tra poche ore Mario Draghi e Giuseppe Conte si incontreranno per un faccia a faccia che a tener conto delle drammatizzazioni degli ultimi giorni in caso di mancato accordo potrebbe determinare l’uscita del M5S – ma meglio sarebbe dire di quel che ne resta – dalla maggioranza.

Drammatizzazioni peraltro acuite dai boatos secondo cui se da Palazzo Chigi arrivassero concessioni che impattano sul decreto aiuti all’esame del Parlamento, dal termovalorizzatore a Roma al Reddito di cittadinanza, allora sarebbe Salvini a dire addio alle larghe quanto strambe intese che da un anno e mezzo fanno da piedistallo all’esecutivo.

Si tratta di focolai di tensione non indifferenti che da un lato sono figlie della campagna elettorale di fatto già in corso per le elezioni della prossima primavera, e dall’altro di strappi come quello di Luigi di Maio, testimonianza di liquefazione del MoVimento ormai ridotto a brandelli rispetto all’Invincibile Armada del 2018 e degli equilibri interni al Carroccio, logorati dall’emorragia elettorale e di leadership subita dall’ormai ex Capitano.

Vedremo come andrà a finire. Il meno che si può affermare tuttavia è che mandare in crisi l’esecutivo in un passaggio delicatissimo sul fronte della guerra tra Russia e Ucraina e delle conseguenze politiche, economiche e sociali che ne derivano, oltretutto con il Pnrr in buona parte attuato ma ancora lontano dal raggiungere le meta di riforme necessarie per ottenere i 200 miliardi promessi da Bruxelles, sarebbe un atto di irresponsabile autolesionismo.

Come pure non può non suscitare sbigottita amarezza riandare con la memoria ai fasti di quanti hanno lavorato per impedire che Draghi salisse al Quirinale assicurando che, rimasto a guidare il governo, avrebbe avuto una marcia spedita, senza intoppi e positiva in quanto a risultati per il Paese. Un vero e proprio abbaglio, non si capisce quanto dovuto a imperizia o opportunismo.

Comunque andrà oggi, i prossimi mesi risulteranno assai accidentati. Se davvero ancora una volta prevalesse la melassa negoziale, Draghi andrà avanti sempre più ammaccato dagli interessi dei partiti e perdendo un pezzo della sua autorevolezza: viatico micidiale in vista della legge di Stabilità da predisporre entro settembre.

Se al contrario saltasse tutto, si spalancherebbero le porte della crisi e addirittura del voto anticipato con ripercussioni gravi sulla fiducia nei confronti dell’Italia da parte dei partner europei. Ed è forse questo secondo scenario che merita qualche approfondimento. Al di là degli sconquassi in ambito Ue, infatti, si fatica a comprendere in che modo le forze politiche si organizzerebbero in vista del voto.

Il Campo Largo inseguito da Enrico Letta è stato archiviato dallo stesso Pd nel momento in cui ha ammonito il M5S che lasciare il governo avrebbe significato dire addio ad ogni ipotesi di alleanza elettorale. Così facendo, ha imposto a Conte (senz’altro giustamente ai fini della governabilità e dell’interesse nazionale) un comportamento neanche da junior partner ma di netta subordinazione alle direttive del Nazareno a partire dall’adesione all’agenda Draghi che è proprio ciò che i Cinquestelle intendono contestare.

Al dunque se Conte accetta l’impostazione di Letta diventa ruota di scorta del Pd il quale gioca sul fatto che già oggi ha il doppio dei voti del MoVimento e nel prossimo Parlamento sarà forza prioritaria della sinistra o dei Progressisti, come piace dire all’ex premier pentastellato. Se invece stramba, si autoisola costringendo anche il Nazareno a un destino simile nel momento in cui si apriranno i seggi. In ogni caso, harakiri allo stato puro.

Ma neppure nel centrodestra andare subito al voto conviene. La partita della premiership dello schieramento è in corso e gli esiti non sembrano beneauguranti sotto il profilo della coesione dello schieramento. È vero che nella Lega sarebbe Salvini a stilare le liste, ma è altrettanto vero che allo stato il Carroccio ha dimezzato i consensi tornando alle percentuali di quattro anni fa, e forse il capo leghista avrebbe bisogno di tempo per tentare di risalire la china.

Quanto a Berlusconi, la sua capacità di tenere unite le varie anime del centrodestra è un lontano ricordo e un traumatico stop alla legislatura potrebbe produrre un rompete le righe dagli esiti indefinibili.

Come ha rilevato non senza stupore il presidente del Consiglio, l’Italia guadagna posizioni in Europa e la personalità di chi guida l’esecutivo è punto di riferimento accettato e valorizzato. Ma le beghe di cortine di un Palazzo ridotto ad un formicaio impazzito minacciano di far evaporare quei successi e quella fragile credibilità appena conquistata. A chi giovi tutto questo è davvero difficile capire.

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