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Turchia, perché tutti si schierano contro l’operazione curda

Erdogan cerca di portare avanti le sue iniziative in Kurdistan. Per il presidente turco un’operazione militare al nord della Siria può essere utile pensando alle elezioni

Il bilancio di otto morti e 23 feriti, tutti civili inermi, ospiti di un resort a Zakho (distretto di Dohuk), nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, è di quelli che non possono passare inosservati. Baghdad accusa la Turchia, che avrebbe condotto un’operazione militare contro il Pkk – i guerriglieri curdi – sbagliando bersaglio. Il governo iracheno ha richiamato l’ambasciatore, ha sospeso il processo di nomina di una nuova feluca, e convocato al ministero degli Esteri, il rappresentante diplomatico turco. Ankara smentisce ogni genere di coinvolgimento e anzi accusa il Pkk, autore di un attacco terroristico con l’artiglieria.

La Turchia ha da tempo in mente una nuova operazione militare contro i miliziani curdi, soprattutto in Siria. Quanto successo non è chiaro, anche perché potrebbe essere esposto al fumo della propaganda. Recep Tayyp Erdogan, il presidente turco che sente pesare la crisi economica sulle elezioni che ci saranno tra qualche mese, cerca consensi su un’attività militare che invece indispone tutti, più o meno. Quanto accaduto in Iraq potrebbe essere anche un false flag per giustificare step successivi. Ma siamo chiaramente nel campo delle speculazioni.

In una dichiarazione su Twitter, il primo ministro iracheno, Mustapha Al Kadhimi, ha scritto che le forze turche hanno “perpetrato ancora una volta una flagrante violazione della sovranità irachena”. Baghdad ha denunciato queste violazioni (procedimenti sono in ballo anche all’Onu). Kadhimi dice che si è trattato di un attacco “alla vita e all’incolumità dei cittadini iracheni”, avvertendo che “l’Iraq si riserva il diritto di rispondere a questi attacchi e prenderà tutte le misure necessarie per proteggere il suo popolo”. Ankara, nella nota del ministro degli Esteri, inviata Baghdad “a non rilasciare dichiarazioni sotto l’influenza della retorica e della propaganda della perfida organizzazione terroristica”.

“La Turchia ha aumentato la sua sfrontatezza, pensando che l’Iraq può rispondere solo con una debole”, rilancia Moqtada Al Sadr, leader dell’organizzazione politica di maggioranza (che sostiene l’uscente governo Kadhimi e che fatica a trovare un accordo per l’esecutivo dopo le ultime elezioni). Per il chierico sciita è giunto il momento “di annullare l’accordo di sicurezza con la Turchia”. Il quadro è critico e si somma a una serie di altre criticità che le ambizioni di Erdogan stanno sollecitando in modo rischioso.

Nei giorni scorsi, Israele ha fatto pressioni sugli Stati Uniti affinché bloccassero la Turchia da nuove operazioni contro i curdi in Siria. Il consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano, Eyal Hulata, ne avrebbe parlato direttamente con l’omologo statunitense, Jake Sullivan, durante il recente viaggio dell’amministrazione Biden in Medio Oriente. Qualcosa di simile potrebbe essere uscito durante la visita (domenica scorsa) del comandante del CentCom, Michael Kurilla, in Israele.

Tel Aviv teme che l’iniziativa turca alteri determinati equilibri interni alla Siria (un dossier che sta riacquisendo centralità), finendo per favorire l’Iran. Gli israeliani considerano partner i curdi siriani – che sono stati i partner americani durante la guerra al Califfato, poi abbandonati dall’amministrazione Trump. La loro presenza e controllo in un territorio della Siria settentrionale impedisce che gli iraniani (ossia le forze miliziane sciite collegate e mobilitate nel quadrante siriano da Teheran nell’ultimo decennio), vi attecchiscano.

Per Israele la Siria è ormai una piattaforma di lancio per le operazioni iraniane contro lo stato ebraico, e più volte vi hanno compiuto (dal 2013 a oggi) operazioni semi-clandestine per impedire il rafforzamento delle milizie amiche dei Pasdaran presenti all’interno del territorio siriano.

Il presidente statunitense, Joe Biden, aveva chiesto (o meglio dire pressato) direttamente Erdogan durante un faccia a faccia a latere del Nato Summit di Madrid, a fine giugno. Il turco sembrava avere messo da parte l’idea di lanciare un’altra offensiva in Siria – dove già i turchi hanno condotto operazioni militari che hanno anche coinvolto civili negli anni passati. Ma negli ultimi giorni Ankara ha rimesso sul tavolo la volontà di procedere.

“Non ci si può aspettare che la Turchia se ne stia con le mani in mano mentre le organizzazioni terroristiche minacciano la sua sicurezza”, ha detto Erdogan durante l’incontro di Astana con Vladimir Putin e l’Iran Ebrahim Raisi, sottolineando che si aspetta che Russia e Iran sostengano la Turchia nella sua lotta contro i curdi – è questo il senso che Ankara dà al vertice a tre in piedi dal 2016 come attività diplomatica (sulla Siria ma non solo) non allineata alle Nazioni Unite e all’Occidente.

Prima dell’incontro trilaterale, la Guida Suprema iraniana, Ali Khamenei, ha messo in guardia Erdoğan dal lanciare una simile offensiva. Teheran vuole mantenere un rapporto di equilibrio con i curdi siriani, e teme che l’offensiva turca possa alterare una stabilità complessa che la guerra civile siriana ha raggiunto dopo oltre un decennio. L’Iran e la Russia hanno sostanzialmente vinto, il regime di Bashar el Assad – che hanno protetto con il loro intervento militare – è rimasto in piedi, nonostante il peso sanguinoso di centinaia di migliaia di morti.

C’è una ragione in più per frenare la Turchia, ed è praticamente condivisa da tutti: un’offensiva ampia potrebbe produrre un’ulteriore ondata di profughi che potrebbero riversarsi in Iraq o produrre complessi dislocamenti interni. A questa si aggiunge un altro fattore securitario: l’attacco turco potrebbe produrre condizioni caotiche all’interno delle quali lo Stato islamico (che in quell’area della Siria è quiescente da qualche anno) potrebbe approfittarne per ricomporsi e attecchire nuovamente.

Il problema è che Erdogan vede l’azione sul Kurdistan siriano come parte della sua campagna elettorale per le elezioni del 2023, all’interno della quale vuole dimostrare di spingere dossier legati alla sicurezza anche come forma di distrazione dalla crisi economica pesantissima che sta colpendo il suo Paese. A queste si legano dinamiche di insofferenza davanti ai profughi siriani – milioni accolti nel Paese mentre scappavano dal controllo baghdadista che tra il 2014 e il 2016 si era impostato anche sul nord siriano.

L’idea è una dislocazione di parte di quei profughi all’interno di un fascia di territorio appena oltre il confine turco per alleviare le tensioni sociali connesse al tema immigrazione. Per farlo, Erdogan vuole guadagnare una buffer zone all’interno della fascia nord della Siria. Parte del Rojava, la nazione indipendente ed anarchica da sempre sognata dai curdi siriani.



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