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Garanzia, l’intuizione di Letta che sfugge a Salvini. Parla Mannino

Intervista all’ex ministro Dc: Letta ha fatto del Pd il partito della garanzia, a destra non ci riescono e Palazzo Chigi si allontana. In pace e in guerra la chiave è dire sempre: “Ci siamo”. Salvini? La crisi della Lega è reversibile, a una condizione

Dice Calogero Mannino, Dc doc, ex ministro, un vero navigatore della politica, che l’Italia oggi avrebbe bisogno di un “partito di garanzia”. A questo identikit assomiglia molto il Pd di Enrico Letta, ci spiega il democristiano siculo, e molto poco il centrodestra in marcia scoordinata e a ranghi sciolti verso Palazzo Chigi.

E cosa sarebbe un partito di garanzia?

Chiedetelo a Letta, credo lo abbia capito. Se gli elettori promuovono il Pd è perché lo ha collocato non al centro, ma in una posizione di garanzia della stabilità, della continuità, del rapporto atlantico.

In poche parole: ha scommesso su Draghi.

No, il contrario. Ha fatto in modo che la politica di Draghi sia efficace perché sostenuta dal Pd. Chi come me è stato a lungo nella Dc si è reso conto che quel che la rendeva così centrale era la funzione di garanzia del sistema democratico. Una continua riconferma dell’esserci.

Qui andiamo sul filosofico…

Perché è una dimensione filosofica, basta rileggere Heidegger. Anche la Dc era questo. C’è la crisi economica? Ci siamo. C’è la crisi petrolifera? Ci siamo. Il terrorismo? Ci siamo.

Al centrodestra cosa manca?

Il centrodestra non può esserci, finché non sarà risolta la crisi di identità della Lega.

Quale crisi?

Una crisi di involuzione. Negli anni scorsi Salvini ha fatto una scelta coraggiosa: scommettere su un partito nazionale. Oggi si ritrova un partito che rema di nuovo verso il particolarismo territoriale, con un rigurgito autonomistico e mitteleuropeo di Veneto e Lombardia che non può avere posto in Italia.

In regia però, più che Salvini, ci sono i suoi competitor interni.

Salvini ha altri problemi, primo fra tutti un’inaccettabile ambiguità sulla collocazione geopolitica del Paese.

Già, la Russian connection. C’era anche nella Prima repubblica ma non faceva tanto clamore…

C’è una grande differenza che le spiego con un esempio. Nel 1982-83 il governo Fanfani, di cui ero parte, fu criticato per un’apertura quasi amichevole all’Urss. Nel frattempo, però, dava il via al dispiegamento dei missili americani. Non so se è chiaro…

Un consiglio al segretario leghista?

Un passo di lato, se ci riesce. Per far emergere una leadership giovane, di cui lui rimanga un riferimento, che recuperi l’unica grande ideologia del Novecento andata dispersa in Italia: il popolarismo. E freni un processo di frammentazione provincialistica che non può coesistere con questo momento tragico della storia europea.

Mannino, quanto tempo dà al governo Draghi?

Chi può dirlo. Conte difficilmente può rimanere dentro e la crisi della Lega non aiuta. Senza contare un’ambiguità di questi partiti sulla collocazione internazionale del Paese sconosciuta perfino ai tempi di De Gasperi e Togliatti, quando anche i comunisti decisero di giocare alle regole del gioco atlantico. All’opposizione, in difesa dell’Urss, ma pur sempre dentro lo stesso perimetro.

Lei ci crede al grande centro? C’è movimento in vista delle politiche…

Qui mi tocca ripetere, un’altra volta, che il centro non è un luogo geometrico e nemmeno un partito.

Cos’è allora?

Una tensione realizzatrice e concreta che deve riguardare tutti i partiti, nessuno escluso. Letta lo ha intuito, può finire fuori strada solo se ci si fa trascinare dai tanti piccoli e grandi alleati cui deve rendere conto. Salvini può ancora farlo.

Come?

Realizzando che oggi non esiste un solo Paese europeo che si governa dalle estreme. Che il primo passo per fare della Lega un partito autenticamente popolare – non solo nei sondaggi – è ricollegarsi al popolarismo che nel dopoguerra ha ricostruito l’Europa, dalla Cdu al Mrp fino a De Gasperi. La Lega viene da lì, dopotutto.

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