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Giuseppe Prezzolini, vitalità di un anarco-conservatore. Il ritratto di Malgieri

Prodigiosamente, a quarant’anni dalla morte, Giuseppe Prezzolini è ancora una bussola alla quale guardare per non perderci o per ritrovarci. Resta oggi il rimpianto per una lezione non sempre compresa. Eppure questo scrittore è tra noi,  mentre la confusione è allo zenit. Ricordarlo, per quanto nobile possa essere, non basta

Quando il 14 luglio 1982 Giuseppe Prezzolini si spense avendo appena superato la soglia dei cento anni, fu chiaro a tutti, a chi lo aveva amato e a chi lo aveva detestato, che con lui se ne andava forse l’ultimo intellettuale italiano del Novecento che aveva “usato” la cultura come un’arma per combattere i vizi (molti) ed affermare le virtù dimenticate di un popolo che si era fatto nazione formalmente molto tardi, ma che della nazione aveva tutti i crismi, come aveva intuito Alfredo Oriani in Rivolta ideale e La lotta politica in Italia, ben prima che gli eventi risorgimentali si compissero. Ed erano crismi culturali che soli giustificano la formazione di uno Stato-nazione.

Forse per questo, per non dover seguire nessuno nel suo itinerario e battersi senza inibizioni di sorta, non diversamente da altri intellettuali europei affini, che Prezzolini scelse consapevolmente di “farsi“ da solo, come ha rilevato Luigi Iannone nel suo saggio “Giuseppe Prezzolini. Una voce contro il pensiero unico”, rifiutando la formazione scolastica. Alla stessa maniera si comportarono intellettuali come Jünger, Moeller van den Bruck, ed il sodale dello stesso Prezzolini, l’amico Giovanni Papini orgogliosamente “senza laurea”. Un atteggiamento “rivoluzionario”.

PREZZOLINI UN “RIVOLUZIONARIO” ANTE LITTERAM

E rivoluzionario Prezzolini lo fu almeno due volte nella sua lunghissima vita. La prima, quando ventiseienne fondò La Voce, giornale che raccolse le intelligenze migliori dell’Italia post-umbertina e le lanciò in un’opera di svecchiamento della cultura nazionale con l’intento di connetterla alle esperienze europee più all’avanguardia. La seconda, quando, dopo essere tornato in Italia dal lungo esilio volontario, prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, si mise idealmente alla testa di un movimento conservatore tutto da inventare e, a quasi novant’anni, impegnò le sue ultime energie per innestare robuste dosi di realismo in un’Italietta sbandata, non meno di quella attuale.

Se si volesse individuare il precursore del cosiddetto “politicamente scorretto” sarebbe obbligatorio risalire a Giuseppe Prezzolini. Non soltanto tenendo presenti le sue opere, ma soprattutto la sua stessa vita. Con l’infaticabile ricerca su se stesso ed in mezzo agli altri, senza mai estraniarsi da eventi che sono stati epocali ed avvicinando figure che hanno “costruito” il Novecento, Prezzolini ha realizzato l’ideale dell’uomo e dell’intellettuale controcorrente nel fiume di una modernità che nella verde età gli appariva come un compromesso nauseante tra retoriche post-rinascimentali ed aneliti scomposti di superamento delle manie piccolo-borghesi; mentre nell’età matura essa la percepiva nelle forme della composizione perfetta del disfacimento non soltanto nazionale dovuto alla corruzione del carattere dei popoli.

A suo modo, dunque, Prezzolini è stato un “rivoluzionario” ante litteram, obbligato dalla sua natura a dire sempre ciò che pensava, rischiando l’insuccesso, ma destando comunque ammirazione anche in chi lo avversava.

Era poco più d’un ragazzo nel 1917 quando pubblicò nella Rivista di Milano quel Codice della vita italiana, rivisitato e “limato” più volte, nel quale, all’articolo 38 leggiamo, non senza sorpresa nel considerare che aveva capito tutto, e con largo anticipo, del suo Paese: “In Italia nove decimi delle relazioni sociali e politiche non sono regolate da leggi, contratti e parole date. Si fondano invece sopra accomodamenti pratici ai quali si arriva mediante qualche discorso vago, una strizzatina d’occhio e il tacito lasciar fare fino a un certo punto. Questo genere di relazioni si chiama compromesso”.

CENTO ANNI DI “SCORRETTEZZA” POLITICA

Non è cambiato molto in oltre cento anni. E la “scorrettezza” politica, oltre che intellettuale naturalmente, di Prezzolini risulta attualissima tanto da farne un paradigma dell’anticonformismo semmai questa attitudine fosse ancora diffusa. Purtroppo, come constatiamo, e come Prezzolini stesso prevedeva, si è affermata la moda della compiacenza, evoluzione dell’antico servilismo contro il quale nel Codice citato cogliamo i segni di una rivolta che sarebbe divenuta la trama del suo pensiero nel corso della sua intensa e lunga esistenza, non esente da asprezze giustificatissime nei confronti dell’Italia sempre amata eppure paradossalmente detestata al punto da abbandonarla.

Eppure lui stesso s’identificava, in una certa misura, con gli italiani che radiografava impietosamente. Nel Codice leggiamo: “L’Italia non è democratica, né aristocratica. È anarchica”. Come dargli torto? E dicendo che “tutto il male dell’Italia viene dall’anarchia. Ma anche tutto il bene”. Eccolo il più “politicamente scorretto” degli “apoti”, coloro che non se la bevono, (il termine fu coniato nel 1922 e usato in un articolo sulla “Rivoluzione liberale” di Piero Gobetti), come definì se stesso e coloro che ne seguivano gli orientamenti.

Della tendenza conservatrice Prezzolini propose nel 1971 una strepitosa difesa che più “rivoluzionaria” non la si potrebbe immaginare. L’editore Rusconi, grazie al suo intelligente direttore editoriale Alfredo Cattabiani, gli chiese di mettere in ordine le sue idee sparse in numerosi scritti per più di settant’anni. Non si fece pregare, e con entusiasmo giovanile, tirò fuori un essenziale quanto gustoso Manifesto dei conservatori che qualche anno fa ha rivisto la luce curato da Gennaro Sangiuliano, già autore dell’ esaustiva biografia, Prezzolini anarchico-conservatore. Proprio Sangiuliano mette in luce il valore di questo libro prezioso quando sottolinea che esso è la risposta al “conformismo spesso ancora imperante in Italia”.

Il conservatorismo, dunque, è un dato prevalentemente pre-politico, come hanno testimoniato pensatori quali Moeller van den Bruck e Martin Heidegger. Del secondo, Prezzolini mostrava di conoscere assai bene l’opera tanto da concludere che per il filosofo dell’Essere il conservatorismo è chiamato a preservare la stessa democrazia. Bisognerebbe spiegarlo ai masticatori di formulette politiciste quanto la “conservazione” abbia agito nella dinamica e nello sviluppo delle comunità nazionali nel corso della storia. Il suo nazionalismo, condiviso da Papini, suo compagno d’avventure intellettuali e molto di più, risulta attuale oggi ed è quasi un miracolo: sarà per questo che di Prezzolini non se ne parla. Con qualche eccezione: il 16 luglio, alle ore 23, per la rubrica Tg2 Dossier andrà in in onda lo speciale, animato da intellettuali, storici, giornalisti, scrittori, “Giuseppe Prezzolini”, coordinato da Gennaro Sangiuliano, direttore della testata giornalistica.

Comunque va ricordato che persino nel cinquecentesimo anniversario della pubblicazione del Principe di Nicolò Machiavelli non c’è stato editore che si sia dato la pena di ripubblicare la biografia prezzoliniana del Segretario fiorentino, che oltretutto è gustosissima oltre che preziosa per capire i tratti essenziali del complesso quadro dell’epoca.

UN ANARCO-CONSERVATORE INCOMPRESO

In qualsiasi altro Paese gli avrebbero dedicato innumerevoli saggi ma non in Italia. E così l’anarco-conservatore è rimasto incompreso. Soprattutto dall’Italia ufficiale: il suo Paese che addirittura lo rimosse, lo rinnegò, lo costrinse all’esilio fino a quando un Presidente della Repubblica, non lo invitò nel giorno del suo centesimo compleanno al Quirinale per conferirgli il massimo riconoscimento letterario: la Penna d’oro. In quell’occasione, Sandro Pertini, mise da parte i suoi pregiudizi e riconobbe al suo quasi coetaneo le virtù intellettuali che l’Italia degli intellettuali asservita all’establishment cattocomunista gli negava. Non tanto perché radicalmente in contrasto con il pensiero dominante, quanto per un’antica ostilità maturata nel corso del tempo verso un intellettuale libero che formatosi in maniera asistematica aveva prodotto frutti strepitosi, al di là della destra e della sinistra, del fascismo e dell’antifascismo, come dimostra l’influenza che esercitò, giovanissimo, nella cosiddetta “stagione delle riviste” che segnarono culturalmente la nascita del nuovo secolo, insieme con Papini, Soffici, e “Leonardo”, “La Voce”, “Il Regno”, “Lacerba”: uomini e pubblicazioni che favorirono, in misura considerevole, la preparazione della nuova Italia.

Quella Italia era caratterizzata dalla prepotente diffusione di nuove forze: il proletariato organizzato ed una borghesia imprenditoriale, sindacati nel cui ambito si formò la componente “rivoluzionaria” studiata con tempismo impressionante da Prezzolini e nuovi partiti tra i quali alcuni di massa, il movimento nazionalista e quelli più intellettuali ed artistici che irruppero nella politica condizionandola: il movimento dannunziano e quello futurista; tutte le componenti di questo magmatico universo proiettarono la nazione in una prospettiva politica inedita e ricca di promesse facendone perfino un soggetto di rilevanza europea. Poi la guerra fece il resto. E gettò il Paese in un’impresa che lo avrebbe trasformato.

Il dopoguerra, il fascismo, un’altra guerra e l’infinito conflitto, tra forze politiche, sociali, generazionali che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento non vedono Prezzolini muto, ma sollecito “interventista”, anche da lontano per oltre tre decenni. E la lunga storia vissuta intellettualmente matura in lui lo scetticismo che lo porta a diffidare della possibilità che l’Italia si rimetta in cammino, per come immaginava che dovesse accadere al debutto sul palcoscenico culturale.

Nel 1962 Prezzolini decise di tornare in Italia. Stabilì la sua dimora sulla Costiera Amalfitana a Vietri sul Mare, in località Crestarella dove riceveva periodicamente le visite, tra gli altri, del mitico direttore del Mattino Giovanni Ansaldo. Nonostante la nuova vita, Prezzolini non riuscì tuttavia a scrollarsi di dosso quello scetticismo che lo portava a diffidare della possibilità che il Paese si rimettesse in cammino.

Avvilito, ma non rassegnato il vecchio scrittore, rimasto solo dopo la fine degli Ansaldo e dei Longanesi, dei Missiroli e dei Soffici, di Papini soprattutto, ebbe la forza di prospettare il suo conservatorismo come àncora di salvezza. Lo fece dalla Svizzera dove era “riparato” per sottrarsi a quella Italia che non poteva amare, con tre libri: il ricordato Manifesto dei conservatori, Intervista sulla Destra curata da Claudio Quarantotto e Ideario, strumenti appuntiti e intelligenti che i cosiddetti “moderati” degli anni Settanta non seppero usare. E la Destra, quella sua Destra “impossibile” e conservatrice continuò a non esserci.

Resta oggi il rimpianto per una lezione non sempre compresa. Eppure Prezzolini è tra noi. Prodigiosamente, a quarant’anni dalla morte, è ancora una bussola alla quale guardare per non perderci o per ritrovarci.

Tra questi due momenti, altamente significativi non soltanto della vita del più longevo e prolifico intellettuale italiano del secolo scorso, ma della cultura del nostro Paese, l’anarchismo di Prezzolini è sempre stato evidente, pur non avendolo apoditticamente rivendicato. Esso era connaturato alla sua personalità che non sopportava le irreggimentazioni, i richiami delle mode, le lusinghe del potere e a tutto questo si opponeva tenacemente con l’intelligenza di uno spirito libero, ma anche con la consapevolezza che conservare una certa idea dell’Italia, legarla ad una visione decidente e partecipativa della democrazia, pretendere una sobrietà “risorgimentale” dai governanti era quanto di più “sovversivo” si potesse immaginare. Anarchico e conservatore, dunque, è stato Prezzolini e come tale ce lo descrive nel suo denso volume Gennaro Sangiuliano (Giuseppe Prezzolini. L’anarchico conservatore, Mursia, pp. 497, euro 24,00). Un saggio che si legge come un romanzo, anche perché romanzesca è stata la vita del biografato, ma che non si esaurisce nel descrivere l’avventura intellettuale di Prezzolini. Infatti, l’autore, opportunamente lega questa alla complessiva vicenda culturale e politica del secolo scorso, offre un’interpretazione storica del cammino e dell’influenza delle idee nei mutamenti intervenuti in uno dei periodi cruciali della nostra vicenda nazionale.

Prezzolini è stato un “testimone scomodo” del Novecento, poiché l’ha attraversato sezionandolo e, nel contempo, contribuendo a formarlo. Con tutta evidenza non c’è riuscito poiché se i suoi orientamenti avessero influenzato nel profondo i costumi e la politica, probabilmente noi oggi parleremmo un’altra lingua, non saremmo stati turlupinati dai demagoghi che ce l’hanno data a bere, non avremmo subito l’oppressione dei mediocri e dei voltagabbana, per sfuggire ai quali, nel 1925 Prezzolini decise di mettere tra lui e l’Italia l’Oceano, dopo un breve soggiorno nella capitale francese. E l’Italia non gliela perdonò. L’Italia ufficiale, naturalmente, l’Italia dei partiti post-fascisti, resistenziali e democratici i quali, com’è noto, soggiacevano alla cultura comunista, ne erano subalterni quando non schiavi. Non è un caso, come ricorda Vittorio Feltri, nella scintillante prefazione al volume di Sangiuliano, nella quale, tra l’altro ricorda di essere stato l’ultimo giornalista ad intervistare lo scrittore nel suo “esilio” (un altro ancora) di Lugano, che “i libri e le carte del maestro sono ancora in Svizzera. L’Italia non trovò modo di riscattarli. O forse non volle. C’è poco da stupirsi. Nel clima di soffocante conformismo del dopoguerra, Prezzolini fu rimosso velocemente. Non era classificabile. Non aveva etichette”. E questo era insopportabile per l’establishment dominante. Ancora più insopportabile e, sicuramente, incomprensibile, risultava, ai maestrini del pensiero, la sua struttura politico-culturale che proprio non poteva avere cittadinanza nel nostro Paese: “Era un anarchico conservatore – scrive Feltri -, come lui stesso amava definirsi. Può sembrare una contraddizione, ma non lo è. La società, se lo Stato non interviene, si regola da sé. Crea spontaneamente una gerarchia di valori che, per comodità, possiamo chiamare tradizione. Prezzolini confidava nella tradizione e diffidava dello Stato. Una tradizione vitale e non imbalsamata. Pronta all’autocritica e parta al dibattito”. Che cosa poteva avere a che fare con quell’Italia che dall’America guardava con il cannocchiale?

Sangiuliano, raccontando minuziosamente tutti i passaggi della vita e dell’opera dello scrittore, come nessuno aveva fatto finora, da napoletano arguto, coltissimo e raffinato, riesce a penetrare nelle pieghe di un pensiero tumultuoso, a volte contraddittorio, sempre illuminato dall’intelligenza e dalla volontà di ricerca. Un pensiero che si formò in maniera asistematica e che produsse frutti strepitosi a giudicare non soltanto dalla vasta bibliografia prezzoliniana, ma dall’influenza che esercitò, giovanissimo, insieme con Papini, Soffici, e le riviste “Leonardo”, “La Voce”, “Il Regno”, sulla cultura del tempo, segnando una stagione irripetibile che preparò, in qualche modo, la nuova Italia.

“La Voce” resta il suo capolavoro; una palestra di libertà intellettuale come non se ne sarebbe vista mai più. Essa nasceva perché Prezzolini e i suoi collaboratori, a cominciare da Papini, “sentivano fortemente l’eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l’angustia e il rivoltante traffico che si fa per le cose dello spirito”. Era la risposta che una certa Italia attendeva. “L’Italia del primo Novecento – scrive Sangiuliano -, nella quale s’immerge il giovane Prezzolini, è scandita dall’ascesa prepotente delle nuove forze sociali: la borghesia imprenditoriale industriale attiva al Nord e di riflesso un vasto proletariato che si andava organizzando nel Partito Socialista e nei sindacati. Due nuove forze opposte e vitali”.

La guerra fa il resto. E getta il Paese in un’impresa che lo trasformerà. Poi il dopoguerra, il fascismo, l’attraversamento del Ventennio, un’altra guerra e l’infinito conflitto, tra forze politiche, sociali, generazioni, che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento non vedono Prezzolini muto, ma sollecito “interventista”, anche da lontano per oltre tre decenni. E la lunga storia vissuta intellettualmente matura in lui lo scetticismo che lo porta a diffidare della possibilità che l’Italia si rimetta in cammino, per come immaginava che dovesse accadere al debutto sul palcoscenico culturale. Avvilito, ma non domo, come ricorda Sangiuliano, il vecchio scrittore, rimasto solo dopo la fine degli Ansaldo e dei Longanesi, dei Missiroli e dei Soffici, di Papini soprattutto, ha ancora la forza di lanciare il suo conservatorismo come àncora di salvezza. Lo fa con due libri: il Manifesto dei conservatori e Intervista sulla destra. Strumenti appuntiti, ma che i moderati degli anni Settanta non seppero usare. E la Destra, la “sua” Destra, continuò a non esserci.

Resta oggi il rimpianto per una lezione non sempre compresa. Eppure Prezzolini è tra noi, come una bussola, mentre la confusione è allo zenit. Ricordarlo, per quanto nobile possa essere, non basta.

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