Skip to main content

Governo, a che punto è il tip-tap di Conte

Dal Consiglio nazionale del Movimento Cinque Stelle prevale la linea dura, giovedì i senatori potrebbero uscire e non votare la fiducia sul Dl Aiuti. L’ultimatum di Salvini strappa sorrisi, “vuole liberarsi dei governisti”. Le correnti interne e una via d’uscita (difficile) per salvare baracca e burattini

C’è una sola certezza nel Movimento Cinque Stelle: l’inerzia non è un’opzione. Più di tre ore di Consiglio nazionale presieduto dal leader Giuseppe Conte confermano i pronostici della vigilia. Giovedì al Senato – questa la linea ad ora prevalente – i pentastellati usciranno dall’aula e non parteciperanno al voto di fiducia sul Dl Aiuti.

Difficile che la riunione con i gruppi parlamentari convocata da Conte per la serata inverta la rotta. Non ci è riuscito neanche Matteo Salvini, che nella mattinata ha iniziato a suonare il requiem al governo: “Se i Cinque Stelle non votano il decreto, si va al voto”. Quando l’ultimatum del segretario della Lega irrompe sulle agenzie i colonnelli a Cinque Stelle radunati via Zoom in Consiglio non si scompongono. “Ce l’aspettavamo, sta giocando la sua partita”, è una delle reazioni a caldo.

Il lungo conciliabolo ha visto Conte nella versione di arbitro, ancora incerto sulla linea definitiva da dare alla pattuglia di Palazzo Madama. Ma ha anche rimarcato i contorni delle geometrie interne. Da una parte i barricaderos, convinti che l’esperienza Draghi sia ormai giunta al tramonto e sostenitori di un abbandono dell’aula. Tra di loro una minoranza di senatori, tra i cinque e i dieci, che medita addirittura lo scontro frontale con un voto contrario alla fiducia. Una posizione che – qualora le indicazioni ufficiali propendessero per l’astensione ­– potrebbe sottoporre i “ribelli” al rischio di un’espulsione come previsto dal regolamento, e che per questo nelle ultime ore si cerca di far rientrare. Dall’altra i pontieri, convinti che uno strappo si trasformi in un boomerang politico e dunque elettorale per il Movimento.

Alla prima schiera appartengono big come Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, il pugliese Mario Turco, vicepresidente e contiano della prima ora. A tirare il freno invece i ministri Fabiana Dadone e Federico d’Incà, Stefano Buffagni, il sottosegretario Carlo Sibilia e il capogruppo alla Camera Davide Crippa, la viceministra al Mise Alessandra Todde. Non pochi restano invece sul crinale, come la vicepresidente Paola Taverna.

Non sono bastate le rassicurazioni del presidente del Consiglio Mario Draghi a margine dell’incontro con i sindacati martedì: l’apertura su salario minimo e cuneo fiscale, la conferma che “senza il Movimento Cinque Stelle non esiste un governo Draghi”, la stoccata indiretta alla Lega che “promette sfracelli a settembre”. L’impressione prevalente nel Consiglio grillino è che un segnale forte di distacco non sia più rimandabile. Anche se, di questo sono consapevoli i colonnelli riuniti, a questo punto è difficile immaginare una via d’uscita che non rischi di terremotare il governo.

Una soluzione valutata nella riunione tenta di salvare il salvabile: uscire dall’aula durante il voto di fiducia ma votare la fiducia non appena Draghi si presenterà a chiederla di nuovo. Un passaggio che dalle parti di Via Campo Marzio ritengono probabile se non certo: dopo la richiesta di una verifica di maggioranza da parte di Silvio Berlusconi e Salvini, questo il ragionamento, Sergio Mattarella chiederà al premier pericolante di fare un ulteriore test in Parlamento.

Nessuna ipotesi però è esclusa. Anche quella di un “governo balneare” – tra i nomi che sussurrano i grillini c’è quello dell’attuale ministro dell’Economia Daniele Franco – che metta al sicuro la legge di bilancio in autunno e porti alle elezioni. La palla – chiariscono dalle fila grilline – è però anche nel campo di Salvini. Il segretario di Via Bellerio, sussurano maliziosi dal Consiglio, potrebbe essere tentato da uno strappo per “liberarsi” dell’ala governista del partito.



×

Iscriviti alla newsletter