Al “Med-Or day” un bilancio della politica estera targata Draghi con i ministri Di Maio e Guerini. Tra nostalgia e timori, uno sguardo all’Italia nel Mediterraneo oltre la crisi e all’emergenza demografica, umanitaria e alimentare che rischia di bussare a Roma via mare. E il presidente Minniti propone la conferenza internazionale dei Paesi del Mediterraneo allargato
C’è già un velo di nostalgia che avvolge il (fu) governo Draghi. Quasi che l’avvento dell’ex numero uno della Bce a Palazzo Chigi, nel febbraio 2021, appaia oggi un evento lontano, remoto, perfino difficile a spiegarsi. È l’impressione che prevale sotto il tendone allestito dalla Fondazione Med-Or questo mercoledì per celebrare il “Med-Or day” nella sua sede di via Cola di Rienzo.
Alla chiamata della fondazione di Leonardo presieduta dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti risponde un coro di autorità. Sul palco, a dialogare con il padrone di casa, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, incalzati dalle domande di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica. In platea c’è lo Stato in grandi ambasce. La direttrice dell’intelligence (Dis) Elisabetta Belloni, il capo dell’Aisi Mario Parente, il direttore dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn) Roberto Baldoni e la vice Nunzia Ciardi. Con loro, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e l’ex ministra Roberta Pinotti. C’è anche l’industria, a partire da Leonardo, con il presidente e l’ad Luciano Carta e Alessandro Profumo, fino al presidente dell’Aiad Guido Crosetto.
È un’occasione per parlare della posizione italiana nel Mediterraneo e dei riverberi della guerra in Ucraina, entrambe al centro del lavoro a Med-Or. E però, è inevitabile, il dialogo, più che una previsione, sembra voler offrire un bilancio di un’esperienza giunta al termine. “Un compito difficile”, esordisce Di Maio, leader della pattuglia parlamentare Ipf (Insieme per il futuro) uscita un mese fa dal Movimento Cinque Stelle e pronto a dare il suo contributo nel grande centro che inizia a prendere forma in vista delle elezioni, il 25 settembre. Con Draghi, rivendica, “l’Italia ha cercato di esprimere tutto il potenziale della sua vocazione euroatlantica”. Lo ha fatto, riprende, “con il coraggio di scelte nette, sostenendo militarmente la resistenza ucraina”. Gli fa eco Guerini, oggi al Copasir per illustrare il quarto decreto per inviare armi a Kiev, “l’Italia ha evidenziato da subito quella che è una grave violazione del diritto internazionale e una minaccia per l’ordine e la sicurezza globale”.
Il cammino della politica estera italiana targata Draghi si è però interrotto bruscamente. E la crisi innescata dallo strattone di Cinque Stelle, Lega e Fi, insieme al rush elettorale che ne è scaturito, ha lasciato in sospeso tanti dossier: dal sostegno militare e finanziario italiano all’Ucraina, inevitabilmente rallentato, al finanziamento delle missioni italiane discusso ieri mattina in Commissione esteri da Guerini e Di Maio. Il titolare della Farnesina si affaccia sul voto e auspica che “gli italiani chiederanno al futuro governo di sostenere questa linea”, perché “ne va della sicurezza dei nostri partner e dei nostri cittadini”. Si mostra ottimista anche il ministro dem. Dopotutto, nota Guerini, più che il governo Draghi “è stato il Parlamento a sostenere così ampiamente l’Ucraina”.
Il limbo elettorale, va da sé, non aiuta a tenere la barra dritta. Con la campagna entrata nel vivo – mentre il centrodestra cerca una quadra sulla leadership e il Pd di Enrico Letta disegna il campo largo, ma non troppo – la causa ucraina rischia di rimanere sullo sfondo, per un po’. Di Maio non si sottrae alla cronaca. Ieri ha incontrato il segretario dem insieme al sindaco di Milano Beppe Sala, disposto a giocare un ruolo nell’alleanza progressista, da regista più che da frontman. “Un buon incontro”, lo definisce il ministro, “Sala continuerà a fare il sindaco ma darà sostegno a questa coalizione che va definendosi in modo importante in vista delle elezioni”.
La guerra, però, non aspetterà le urne. E chi crede che con il tempo i venti della crisi ucraina soffieranno altrove, lontano dai palazzi italiani, si sbaglia di grosso, avvisa Minniti. Perché “se la guerra ha avuto il suo epicentro in Ucraina, ha dispiegato un’onda d’urto nel mondo, a partire proprio dal Mediterraneo”. Tradotto: è più vicina di quanto immaginiamo.
Né basta il fragile accordo sullo sblocco del grano dai porti ucraini – siglato ad Ankara dai belligeranti grazie al broker Recep Tayyip Erdogan – a scongiurare quella che Minniti chiama “una mondializzazione della crisi”. Demografica, alimentare, energetica. Busserà presto alle nostre porte, è il monito del presidente di Med-Or. Che lancia poi “un messaggio in bottiglia”: una conferenza internazionale dei Paesi del Mediterraneo allargato – dalla Tunisia al Libano, dalla Turchia all’Egitto – convocata in autunno dai due Paesi europei più esposti alle maree della crisi, Francia e Italia. “Ci vuole anche un nuovo ordine mondiale che garantisca la pace – chiude – e questo non sarà possibile senza la soggettività politica del Mediterraneo accanto ai grandi del mondo”.