Il 24 febbraio 2022 passerà alla storia come il giorno in cui la Russia di Putin ha scelto, di nuovo, i carri armati. Come nel caso dell’Expo 2030, l’Italia ha una carta diversa da giocare e deve farlo subito. Il commento di Stefano Stefanini
Ricorderemo il 2022 come l’anno che ha riportato la guerra in Europa. La guerra tradizionale, delle grandi potenze – o che si credono tali – che strappano terre e assoggettano gente a suon di cannonate mascherandole poi con convenienti referendum dall’esito scontato. Le sorti dell’Ucraina dipendono da questa guerra, non dal diritto internazionale e dall’ordinamento multilaterale. È un gigantesco passo indietro rispetto alla Carta delle Nazioni Unite e dei valori dell’Unione europea. Ma le fondamenta di Onu e Ue poggiano sul soft power mentre Vladimir Putin ha scommesso tutto sul hard power. Ritiene che una vittoria militare, non importa a che prezzo di brutalità e di pulizia etnica, abbia la meglio su qualsiasi soft power della comunità internazionale.
L’Occidente e le democrazie hanno nel soft power un enorme punto di forza. La capacità di esercitarlo è uno strumento importante di politica estera. Le nazioni gareggiano apertamente, e pacificamente, fra loro. Cercano opportunità per metterlo in mostra ospitando grandi eventi, esportando immagine, stili, cultura. Esistono graduatorie regolarmente per misurarlo. Nelle relazioni internazionali, accompagna e integra i tradizionali burro e cannoni, peso economico e forza militare. Gli Stati Uniti restano la massima potenza mondiale perché, oltre a primeggiare nell’uno e nell’altra, detengono risorse di soft power da cui sono stati, e sono, grandemente avvantaggiati.
Le caratteristiche del soft power – fisiologicamente anarchico, contemporaneo, disperso nella società civile – mal si conciliano con la Russia di Putin, autocratica e centralizzata. Il modello di “democrazia sovrana” cercava di compensarlo proiettando autorevolezza, stabilità e ordine. Qualsiasi attrazione potesse esercitare è oggi sepolta sotto le macerie di Mariupol, di Vinnytsia, di innumerevoli pacifici villaggi ucraini. L’appello al nazionalismo slavofilo e russofono tocca corde interne ma non è certo merce da esportazione. La grande letteratura e musica è rendita del passato, per lo più opera di autori che si trovavano sul versante contrario all’imperante assolutismo del Cremlino.
Il soft power è un’onda lunga che si cavalca ma non si controlla. La politica estera di Putin ha invece bisogno di leve che sa di controllare, come i rapporti di forza o di ricatto economico ed energetico, come sta usando spregiudicatamente con grano e gas. L’indisciplina del soft power non trova spazio nell’arsenale putiniano. Ma occorre contrastare quello altrui.
Il metodo principe è la disinformazione a 360 gradi con cui delegittimarne le basi fattuali. Non sempre è possibile. Non c’è disinformazione o fake news che tengano in Ucraina: la guerra d’aggressione e la cornice di violenze indiscriminate contro civili sono sotto gli occhi di tutti. In Ucraina, Putin vuole dimostrare che nel mondo, oggi, conta e basta solo l’hard power. Che quello soft è un’irrilevante illusione occidentale e europea.
Schiacciando il soft power Putin getta una sfida all’intera comunità internazionale. Pescando nell’ampio serbatoio dell’internazionale autocratica troverà sicuramente alleati. Ha arruolato la teocrazia di Teheran. Farà la corte a Xi Jinping, alla vigilia della consacrazione – a vita? – del XX Congresso. Si è dunque innescato un ciclo involutivo in cui le conquiste associate al soft power, come multilateralismo, diritto internazionale, rispetto dei diritti umani, cedono definitivamente il passo all’hard power?
I sintomi non sono univoci. Il soft power da solo non basta, prova ne sia il prepotente ritorno di difesa, sicurezza, resilienza, indipendenza energetica al centro delle priorità in Europa. La neutralità, vocazione esistenzialmente legata alla proiezione di soft power, non garantisce più sicurezza; Helsinki e Stoccolma scelgono la Nato, persino la Svizzera si guarda nervosamente intorno. Anche la “autonomia strategica” perseguita dall’Ue in campo tecnologico e industriale serve a recuperare capacità di hard power.
La dinamica non è, tuttavia, a senso unico. In controtendenza, opera la necessità di far ricorso al soft power della cooperazione internazionale contro minacce come cambiamenti climatici e pandemie. Basta guardare il termometro di questi ultimi giorni in Europa. Bruxelles si prepara a rispondere al ricatto russo del gas con un piano energetico di “unità e solidarietà”. Cacciato ad opera di Putin dalla finestra ucraina, il soft power rientra dalla porta delle sfide globali e della politica.
La ricerca di soft power continua ad essere una molla potente di politica estera. Paga dividendi generosi a chi vi investe. L’Expo 2020 (tenuta nel 2021-22 causa Covid), recentemente conclusasi, ha efficacemente catapultato Eau sulla scena mondiale come polo d’innovazione, di cultura e di inclusività. Gli Emirati sono da tempo un attore regionale importante nel Golfo e in Medio Oriente, all’avanguardia dei rapporti del mondo arabo con Israele, con un ruolo di peso nelle forniture energetiche mondiali. Ma con l’Expo hanno fatto un salto di qualità in statura internazionale. Questo è l’effetto soft power. L’Italia se ne è accorta. Milano, sull’onda lunga di Expo 2015 che ha rilanciato la nostra “capitale morale”, si prepara a ospitare le Olimpiadi invernali Milano Cortina nel 2026.
Roma è in corsa nella gara a chi ospiterà Expo 2030 (Expo 2025 è già assegnata a Osaka). La concorrenza è agguerrita. Sono rimaste in campo Riad, Busan e Odessa (quest’ultima con l’incognita della guerra). I prossimi mesi saranno cruciali nella campagna per i circa 190 voti del Bureau International des Expositions. Rischiamo purtroppo di pagare l’autolesionismo dell’irresponsabile caduta del governo di Mario Draghi. Per un anno e mezzo il calmo prestigio internazionale dell’ex presidente della Bce è stato una risorsa di soft power dell’Italia nel mondo.
La candidatura di Roma a Expo 2030 deve cercare di non accusare il colpo. Per l’Italia è, al tempo stesso, una sfida e un’occasione sul palcoscenico mondiale del soft power. Che è tutt’altro che finito. Expo e Olimpiadi, da una parte, guerra d’aggressione russa, dall’altra sono le due facce della Luna. Incomunicabili.
Anche Mosca era candidata a Expo 2030. Dopo l’invasione dell’Ucraina, ha rinunciato, risparmiandosi un’umiliante eliminazione al primo turno di votazione. Ha scelto i carri armati. Sceglierà le annessioni. Taglierà il gas all’Europa. E poi? Non c’è hard power che colmi il vuoto di soft power in cui Putin ha trascinato la sua nazione. La Russia, e i russi, ne pagherà a lungo i costi economici, sociali e culturali.