Tra le richieste (e le visioni) dei sindacati c’è di mezzo la stabilità del governo guidato da Mario Draghi. Allora cosa significa l’incontro tra le principali forze sindacali e l’esecutivo? L’analisi di Giuliano Cazzola
È difficile decifrare i motivi dell’incontro di oggi tra governo e sindacati. A meno che non vi siano prospettive politiche che, per l’opinione pubblica, matureranno nelle prossime ore, ma in qualche segreta stanza siano già note, l’incontro non poteva che essere una mera formalità. Il governo non è sicuro di superare le conseguenze del voto del Senato sul decreto Aiuti, quando un pezzo della maggioranza potrebbe abbandonare l’Aula. Pertanto non sarebbe stato serio fare promesse e prendere impegni.
Nello stesso tempo, per Draghi, annullare l’incontro in attesa dell’esito del confronto politico sarebbe stato un segno di debolezza, come se fosse già aperta una situazione di pre-crisi che impedisse all’esecutivo di compiere gli atti dovuti e lo costringesse a restare in apnea ad attendere le mosse dei pentastellati di rito contiano.
Dal canto loro, le confederazioni sindacali erano consapevoli della situazione in cui versano il governo e la maggioranza: l’esito non poteva che essere la predisposizione di un’agenda con l’indicazione di temi da affrontare a fine luglio. Certo il negoziato è sottoposto ad una condizione sospensiva: a fine luglio sarà ancora in carica questo governo? Ce ne sarà un altro? Si andrà verso le elezioni anticipate dopo una campagna elettorale sotto l’ombrellone? Di una questione siamo certi: Draghi si sarà sicuramente chiesto come mai le richieste di Giuseppe Conte, contenute nel documento dei 9 punti, fossero più o meno le stesse illustrate da Maurizio Landini.
Le cronache raccontano che il premier s’imbatta in questioni con le quali non ha confidenza e chieda spiegazioni ai suoi collaboratori (l’ultima volta gli è successo con Domenico De Masi, quella persona a lui sconosciuta, che lo aveva messo nei guai con l’ex premier). Può essere che – nel tempo – si sia fatto un’idea diversa della Cgil (avendo conosciuto leader di altri tempi) e che oggi si meravigli di vedere la più grande e gloriosa organizzazione sindacale italiana impegnata a riprodurre un “modello Mèlenchon” nel campo dei rapporti politici prima ancora che nell’impianto delle relazioni industriali.
Nei giorni scorsi, infatti, Landini non ha esitato a ribadire la linea di condotta inaugurata il 1° luglio scorso durante l’incontro (“Il lavoro interroga”) all’Acquario Romano con esponenti dei partiti politici con qualche parentela ascrivibile alla sinistra, alla ricerca di un “campo largo” costruito su di un baricentro più radicale, consistente nel programma della Cgil.
In apertura di quella iniziativa Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Cgil, intervistata da Lucia Annunziata (woman on show) ha tracciato lo scenario in cui intende muoversi la Cgil. “Gli ultimi vent’anni hanno fatto registrare una rottura tra mondo del lavoro e politica”, ha affermato Gianna Fracassi, “e la frattura – ha aggiunto – si è determinata sull’incapacità di vedere le condizioni materiali e i bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici. Soprattutto sul tema dei diritti, e la frattura è diventata vera e propria distanza”. Inevitabilmente questo si è tradotto in una crisi di rappresentanza, in una incapacità della politica di dare risposte ai bisogni di lavoratori e lavoratrici.
E poi è arrivata, dalla sindacalista, la slavina del catastrofismo che è divenuto lo scenario sul quale la Cgil costruisce le sue analisi: “Mai tanto lavoro precario come quello registrato e questo dato racconta non solo delle condizioni materiali delle persone, a partire dalla condizione salariale ma anche della qualità del lavoro (…) Se si vuole provare a dare una risposta alla crisi della rappresentanza e della partecipazione occorre partire da qui”. Ovvero da una nuova stagione di diritti e di contrasto alla precarietà”.
Il passaggio dalla teoria alla pratica è stato il compito di Maurizio Landini. La Cgil chiede l’introduzione di un salario minimo purché accompagnato da una estensione erga omnes dei contratti collettivi stipulati dalle OOSS storiche. Per realizzare questo obiettivo ben venga una legge sulla rappresentanza. Vanno poi aboliti quelli sono ritenuti contratti precari e sostituiti con un c.d. contratto unico per tutte le tipologie di rapporti di lavoro. Gli aumenti contrattuali vanno erogati al netto, agganciati all’inflazione reale anche a costo di innescare una corsa al rialzo dell’inflazione; deve essere ridotto il cuneo fiscale e contributivo e la riforma fiscale deve favorire i redditi più bassi. Quanto alle pensioni – lo dice anche la Lega – le regole devono consentire a tanti pensionati “giovani” di essere a carico per alcuni decenni delle generazioni future. En passant, se non proprio un’imposta patrimoniale sarebbe gradito un contributo di solidarietà sui redditi più elevati.
Ciò che angoscia il leader della Cgil sta nel fatto che la classe lavoratrice (detto tra di noi anche i militanti e gli iscritti alla Cgil) si sente più rappresentata dalla destra che dalla sinistra: un processo che, secondo la Cgil, deve essere invertito anche con il contributo del sindacato. Bisognerebbe che Landini spiegasse come sono avvenute queste trasformazioni. Il segretario della Cgil ricorda il tenente Innocenzi (mirabilmente impersonato da Alberto Sordi) il quale non si rende conto di quanto è successo l’8 settembre 1943 e telefona al Comando dicendo che i tedeschi si sono alleati con gli americani.
La destra populista non si è convertita; continua a seguire il suo “sentiment” sociale. In breve, porta avanti la solita politica di destra; la stessa che Landini suggerisce, oggi, alla sinistra. Le classi lavoratrici non hanno ricevuto sul Monte Sinai l’esclusiva del progresso.