Dal gas all’elettricità, dagli stipendi delle forze armate al ruolo della Banca Mondiale. Attorno a Beirut c’è un moto diplomatico che coinvolge Stati Uniti, Israele, Qatar, Egitto e Giordania (e tenta di contenere Hezbollah)
L’Egitto tornerà ad esportare gas naturale in Libano attraverso la Siria, dopo la firma di un accordo il 21 giugno. L’intesa prevede l’esportazione di 650 milioni di metri cubi di gas naturale all’anno attraverso l’Arab Gas Pipeline – un gasdotto già esistente che in passato riforniva il Libano di gas egiziano, ma è stato interrotto anni fa.
L’effettiva fornitura di gas attende l’approvazione degli Stati Uniti per escludere l’Egitto dalle sanzioni contro il governo siriano. Aspetto che finora ha bloccato le evoluzioni commerciali sull’infrastruttura, ma che probabilmente adesso verrà superato. Perché gli Stati Uniti si stanno impegnando per fornire assistenza a Beirut; perché nel Mediterraneo allargato sono in atto una serie di processi di distensione e Washington intende assecondarli.
In base all’accordo, l’Egitto pomperà il gas – lungo 1.200 km dell’infrastruttura che si estende dall’Egitto alla Giordania, poi dalla Siria al Libano – per rifornire la centrale libanese di Deir Ammar, nella parte settentrionale del Paese, che porterà alla produzione di 450 megawatt di elettricità, aggiungendo quattro ore di fornitura al giorno.
Oltre al gas egiziano, il Libano conta su un accordo separato per importare elettricità dalla Giordania. L’accordo è la pietra miliare del piano del governo libanese per colmare il deficit dell’azienda elettrica statale.
Entrambi i deal verranno finanziati dalla Banca Mondiale. L’istituto con sede a Washington e diretto dal politico repubblicano David Malpass si è impegnato a finanziare i progetti a patto che il governo libanese attui le necessarie riforme nel settore dell’elettricità, che ha causato decine di miliardi di dollari di debito pubblico. Il gabinetto libanese ha approvato il piano di riforma nel marzo 2022, ma non lo ha ancora attuata. A Beirut è in corso l’ennesima empasse istituazionale.
La crisi politica ha appesantito le condizioni economiche e finanziarie del Paese, oltretutto colpito dagli effetti della pandemia e dalle conseguenze (su energia e inflazione alimentare) della guerra russa in Ucraina. La situazione tra le varie cose ha ridotto l’erogazione degli stipendi del settore pubblico e tra questi in particolare quelli dei militari. Il salario versato ai soldati è appena sufficiente per permettersi un abbonamento di base a un servizio di generatori che potrebbe compensare le interruzioni di 22 ore della rete elettrica statale. Tutto è concatenato.
Per comprendere la situazione basta pensare che, nel 2020, la mensa dell’esercito ha smesso di offrire carne alle truppe per risparmiare. L’anno successivo, per raccogliere fondi, le forze armate libanesi hanno iniziato a offrire visite turistiche con i loro elicotteri. Per integrare i loro bassi stipendi, molte truppe hanno accettato lavori extra e alcune si sono licenziate, sollevando preoccupazioni sul fatto che l’istituzione – una delle poche in Libano in grado di creare unità tra le comunità settarie frammentate – potrebbe essere in difficoltà.
Davanti a questa situazione, il Qatar – che già dalla scorsa estate fornisce 70 tonnellate di alimenti ogni mese ai militari libanesi – avrebbe raggiunto un accordo con Beirut per inviare 60 milioni di dollari per pagare i salari dei militari. Con la speranza che la sovvenzione al Qatar apra la porta ad almeno altri 50 milioni di dollari di finanziamenti statunitensi e ad altre fonti di supporto per sostenere l’esercito fino alla fine dell’anno.
L’obiettivo è letteralmente tenere in piedi l’istituzione, che è una delle forme di contatto migliori all’interno del sistema libanese. La preoccupazione è che il ruolo dei paramilitari del gruppo politico Hezbollah – che ha già un peso molto importante all’interno del Paese muovendosi come una sorta di stato nello stato – finiscano per sostituirsi alle forze armate.
Il Qatar percepisce la situazione, e agisce da vettore di determinati interessi. Doha ospita l’hub del Pentagono nella regione (la base del CentCom ad al Udeid), e comprende che tra le preoccupazioni degli alleati del Golfo il crescente ruolo svolto dalle milizie collegate ai Pasdaran è in cima all’agenda. La diplomazia militare in queste dinamiche ha un ruolo.
Nel frattempo, la diplomazia classica è al lavoro. L’inviato statunitense per l’energia, Amos Hochstein, avrebbe fissato una data per l’ottenimento di un accordo sui confini marittimi tra Israele e Libano, secondo quando riporta Barak Ravid su Axios. La questione è di primaria importanza non solo per il fronte libanese, ma per tutta l’area del Levante, sponda orientale del Mediterraneo.
Basta pensare che il leader di Hezbollah, Hassan Nasralla, in uno dei suoi sermoni/comizio ha minacciato di usare la forza per impedire alla piattaforma di Karish, situata a sud dell’area contesa e considerata da Israele un “bene strategico”, di produrre gas naturale. L’impianto dovrebbe entrare in operatività nel giro di massimo tre mesi. Secondo le informazioni di Ravid, Hochstein è preoccupato per una potenziale escalation e pensa che il tempo rimasto possa essere utilizzato come una finestra di opportunità in cui entrambe le parti saranno incentivate a trovare un accordo e a evitare derive.
Un accordo con Israele potrebbe permettere al Libano di iniziare l’esplorazione del gas naturale, che potrebbe rilanciare l’economia (e aiutare di conseguenza a colmare i deficit di accesso all’energia). Il punto per il Libano – come per l’intera regione – ruota attorno al superamento di posizioni ideologiche che hanno negli anni creato faglie. Al momento, alcune distensioni sono in corso nell’ottica del pragmatismo tattico che questa fase storica richiede.