Le proteste libiche sono un campanello d’allarme. I cittadini sono stremati, il rischio di derive violente esiste e potrebbe alterare un clima regionale sereno. La soluzione è un meccanismo di gestione fino alle elezioni?
“Le manifestazioni in Libia sono un campanello d’allarme per l’intera classe politica”, commenta Nicola Orlando, inviato speciale per il dossier libico del governo italiano. La dichiarazione del diplomatico segue una posizione presa già da Roma e da tutti gli attori occidentali più presi dal fascicolo libico: stop divisioni interne per evitare che si possano avviare derive non controllabili e violente, e sincero ritorno al percorso verso la stabilizzazione, recitava una dichiarazione congiunta uscita qualche giorno fa.
Una disamina quasi propiziatoria: nella serata di venerdì alcuni manifestanti che protestavano contro il governo hanno attaccato la sede della Camera dei Rappresentanti, che dal 2014 si è auto-esiliata a Tobruk, in Cirenaica. Diverse persone hanno fatto irruzione nell’edificio, utilizzando un bulldozer, i filmati online hanno mostrato i manifestanti demolire l’ingresso e marciare all’interno. Computer e mobili sono stati dati alle fiamme di fronte all’edificio dalla furia dei manifestanti. Altre proteste, con diverse centinaia di persone coinvolte, ci sono state anche nella capitale Tripoli e in altre città come Misurata
Quanto accade è il risultato di uno stallo istituzionale che dura da mesi, con un governo incaricato dalla fiducia parlamentare (guidato da Fathi Bashaga) che non riesce a insediarsi, e un altro sfiduciato (guidato da Abdelhamid Dabaiba) che non lascia gli uffici del potere — perché contesta il processo di voto parlamentare ricevuto da Bashaga e rivendica un ruolo conferitogli dall’Onu (con il percorso del Forum di dialogo politico libico, scaduto però il 22 giugno).
“Le divisioni che influiscono sul sostentamento dei cittadini, compresa la chiusura degli impianti petroliferi, e i litigi politici che ritardano le elezioni devono cessare. La manifestazione della volontà popolare deve rimanere pacifica e senza ostacoli”, aggiunge Orlando.
Il punto è questo: chi manifesta, i libici, sono sostanzialmente esasperati da una condizione paradossale. Dopo oltre un decennio di divisioni che hanno portato a guerre intestine, un cessate il fuoco raggiunto nell’ottobre 2020 aveva aperto a possibilità positive. Era stato avviato un percorso di stabilizzazione tra Est e Ovest, Tripolitania e Cirenaica, sostenuto dalla Comunità internazionale e questa ricucitura della più profonda faglia libica avrebbe dovuto portare al voto.
Dabaiba aveva questo incarico, ma non vi è riuscito a causa di divisioni e interessi politici interni contrastanti. Ora i libici chiedono elezioni, ma chiedono anche che queste divisioni cessino subito perché il Paese è in condizioni di sofferenza. In un’immagine: la fornitura elettrica a Tripoli si limita a meno di otto ore al giorno rendendo la vita difficile ai cittadini.
La folla indignata ha chiesto lo scioglimento e la sospensione di tutti gli organi politici e di andare alle elezioni il prima possibile, incolpando il presidente dell’HoR, Agila Saleh, e il capo miliziano della Cirenaica, Khalifa Haftar, per l’attuale crisi che attanaglia il Paese.
Fonti libiche all’interno dei manifestanti spiegano che la Camera sta “tenendo in ostaggio” la Libia. Saleh, un politico di 83 anni con diverse entrature, è accusato di muovere il parlamento a secondo i propri interessi.
L’HoR è l’ultimo organo eletto in Libia: i rappresentanti nominati nel 2014 hanno ricevuto il voto di appena il 18% degli elettori. Per dire, il presidente Saleh aveva ottenuto solo 913 voti, e con quelli da otto anni tiene in mano una parte del potere politico nel Paese.
Ora i libici ne contestano efficacia, efficienza e legittimità. “Non ha svolto il suo ruolo legislativo e di controllo, i suoi (i parlamentari che controllerebbe, ndr) hanno deliberatamente rinviato le elezioni per rimanere al potere”, dicono i manifestanti, che stanno usando Internet per organizzare i raduni e per raccontare le loro ragioni.
Nei giorni scorsi, Saleh si è incontrato a Ginevra, insieme all’inviata speciale dell’Onu, Stephanie Williams, con Khaled Mishri — il presidente dell’Alto consiglio di stato, un organo istituzionale che fa da contraltare tripolitano alla Camera, più schiacciata sulla Cirenaica. Lo scopo della riunione era risolvere i problemi sulla costituzione e sulla legge istituzionale e cercare una quadra per come traghettare il Paese al voto, affrontando intanto i problemi della cittadinanza.
Al momento non ci sono state svolte, ma c’è un’ipotesi, ventilata in questi giorni anche dall’inviato speciale americano, Richard Norland. In un’intervista a Reuters l’ambasciatore statunitense ha parlato di un meccanismo per controllare la spesa” in mezzo alla situazione di stallo della governance (la Banca centrale libica ha bloccato i fondi e non c’è un bilancio statale approvato). Gli Stati Uniti hanno soprannominato il vettore politico-diplomatico “Mechanism for Short Term Financial, Economic and Energy Dependability” o “Mustafeed”.
Questo meccanismo potrebbe fornire una funzione pseudo-governativa a breve termine fino allo svolgimento delle elezioni. In sostanza, il Mustafeed potrebbe eludere la controversia tra il governo di Dabaiba (acronimo GNU) e quello di Bashaga (GNS). È un’idea che circola tra varie cancellerie impegnate sulla Libia da diverse settimane. Sarebbe un modo per trovare una terza via, se accettata da tutti, e affidare a essa il percorso verso le elezioni.
Il rischio ampio dietro a quello che sta succedendo è che qualcuno usi il palcoscenico libico per incrinare il clima di generale distensione che caratterizza l’attuale fase nel Mediterraneo allargato. È già successo in passato che dalle proteste si è passati a scontri armati su cui poi si sono riversati interessi esterni e per procura. Ora che regna una quiete tattica, la paura è che la Libia possa alterare le cose.
(Foto: Ibrahim Blqasm)