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Meloni pop-corn. Se il caos grillino è un bel vedere

Nella settimana del Conte-show, con il redde rationem sul Dl Aiuti fissato per giovedì, Giorgia Meloni osserva compiaciuta il caos grillino, tra inerzia e sponda con Palazzo Chigi. Potrebbe unirsi al can-can, ma preferisce aspettare tempi migliori

Barricadera e responsabile. In trincea e sugli spalti. Si gode lo spettacolo Giorgia Meloni, spettatrice non protagonista e compiaciuta del can-can grillino. Da una parte le picconate del Movimento Cinque Stelle al governo Draghi. Dall’altra i pop-corn della miglior avversaria dell’inquilino di Palazzo Chigi.

Quattro giornate d’aula per compiere un ribaltamento dei ruoli iniziato più un mese fa, nei giorni di maretta sull’invio di armi alla resistenza ucraina. Giuseppe Conte sulle orme di Matteo Renzi, a rivendicare centralità politica minacciando crisi a giorni alterni. La leader di Fdi intenta a scrutare la crisi di nervi grillina senza muovere un dito e a giocare di sponda con Chigi.

La giornata a Montecitorio si chiude con il via libera al Dl aiuti – 266 voti favorevoli e 47 contrari – pronto ad atterrare in Senato da domani e a passare il test decisivo del voto di giovedì, su cui il governo porrà la fiducia. Il regolamento della Camera, che prevede un voto disgiunto per la fiducia sui provvedimenti, ha permesso alle truppe pentastellate di tenere il piede in due scarpe, uscendo dall’aula al momento del voto sul testo. Su 104 deputati, di cui 18 in missione, sono 85 quelli che hanno seguito le indicazioni date all’ultimo minuto dal capogruppo Davide Crippa.

Giovedì, a Palazzo Madama, non ci saranno invece escamotage: fiducia e dl aiuti faranno il paio in un unico voto. Dentro o fuori. Mentre dalle parti di Campo Marzio Conte studia la strategia – le ultime indicazioni parlano di un invito ad abbandonare l’aula – le truppe meloniane sorridono sornione. Con tanto di scherno degli avversari grillini e della crisi di identità di mezza estate. “Credo che sia davvero un po’ troppo tardi per ridarsi un tono da 5s di lotta”, ha tuonato a Montecitorio il capogruppo Francesco Lollobrigida, sommerso dal coro dei colleghi di partito, “e-le-zio-ni”. “L’emergenza ora è votare”, ha ribattuto il colonnello.

L’impressione però è che all’azione l’unico partito di opposizione preferisca l’inerzia. Quasi a voler lasciare in mano altrui il cerino di una crisi che è nell’aria ma stenta a prendere forma. Mentre Silvio Berlusconi coglie la palla al balzo e di fronte l’Aventino grillino chiede “una verifica di maggioranza” e Matteo Salvini minaccia una spallata su Ius scholae e cannabis, Meloni studia le carte.

Giovedì il tabellone offrirà una dimostrazione plastica del caos calmo in cui naviga il governo Draghi. Perché se è vero che un abbandono dell’aula o un’astensione dei Cinque Stelle salveranno la forma, consentendo alla maggioranza di ottenere la fiducia anche grazie al tamponamento dei voti di Ipif, la pattuglia di Luigi Di Maio, lo stesso non si può dire della sostanza.

Dopotutto è stato Draghi a dirlo: un governo senza il Movimento Cinque Stelle “non esiste”. Una carezza per ribadire la centralità del Movimento nell’agenda e calmare i bollori di chi spintona per uscire, certo. Ma anche un modo per chiarire che uno strappo politico, qualunque forma prenda, costringerà la maggioranza a una verifica.

Anche per questo, hanno fatto trapelare negli scorsi giorni da Palazzo Chigi, una protesta plateale dei Cinque Stelle giovedì potrebbe costringere il premier a salire di nuovo i gradoni del Quirinale e confrontarsi con il presidente Sergio Mattarella. Comunque vada, c’è già un vincitore di questa crisi accennata e per ora solo fluttuante. Tra un coro e l’altro per invocare le urne anticipate, Meloni potrà stare a guardare lasciando a Conte la responsabilità politica e mediatica di quel che in tanti hanno già ribattezzato Papeete bis.

Una scelta consapevole e non obbligata. Perché, se la fiducia non sembra in discussione anche con un Aventino dei grillini, un segnale di rottura può arrivare per altre vie. C’è ad esempio il nodo del numero legale, cioè il numero minimo di senatori presenti perché il voto sia valido, la maggioranza dei presenti, dice la Costituzione all’articolo 64. Un rischio relativo: anche senza i 62 senatori del Movimento Cinque Stelle, il governo al Senato può contare sul sostegno di 203 senatori (cui si aggiungono potenzialmente i 6 senatori a vita).

Abbandonando l’aula insieme ai grillini, i senatori di FdI abbasserebbero la soglia, ma non tanto da far saltare la votazione. Sarebbe comunque un segnale politico e potrebbe dar vita a un effetto domino. D’altronde i tabulati di Montecitorio, scrive l’Ansa, segnalano non pochi assenti ingiustificati al voto di questo martedì anche fra gli altri partiti: 41 nella Lega, 28 in Forza Italia, 16 nel Pd e 11 in Italia Viva. Dalle parti di FdI, in ogni caso, escludono a priori l’ipotesi. A riprova che Meloni non ha alcuna intenzione di intestarsi il caos grillino, potendo anzi rivendicare la “coerenza” del voto contrario alla fiducia. Meglio restare a guardare e lasciare che la diligenza si assalti da sola.



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