Non solo Russia. Un rapporto dell’Onu riaccende i riflettori sulle violazioni dei diritti umani a Hong Kong e in Xinjiang. Pane al pane, come capita raramente. Ma nella campagna elettorale italiana il dossier cinese è un fantasma. Il commento di Laura Harth
Ritirare la legge sulla sicurezza nazionale e nel frattempo astenersi della sua applicazione. Ritirare gli articoli sul crimine di sedizione nel Codice penale. Fermare immediatamente tutti i casi giudiziari contro giornalisti ed individui perseguitati per reati di opinione. Garantire la libertà di stampa.
Sono solo alcune della lunga lista di raccomandazioni fatte ieri dal Comitato Onu per i Diritti Umani ai governi di Hong Kong e la Repubblica popolare cinese nel suo quarto rapporto periodico sull’implementazione e il rispetto dei principi contenuti nel Patto internazionale sui Diritti civili e politici a Hong Kong.
Un rapporto che non cerca di blandire la situazione nella città stretta nella morsa di Pechino, ma ne fa un’analisi che è a dir poco devastante per le autorità comuniste e per chi, anche all’estero, cerchi ancora di minimizzare l’impatto del rapido declino dei diritti più basilari nella città da quando Pechino ha deciso unilateralmente di fare carte straccia della violazione della Dichiarazione congiunta sino-britannica. Da quando è stata imposta la legge sulla sicurezza nazionale: detenzioni arbitrarie, uso di tortura e violenza della polizia contro manifestanti pacifici, la fine dell’indipendenza giudiziaria, censura, assenza di democrazia, …
Il Comitato di esperti Onu non ci sta. E questo ci deve far ringioire nel momento particolare di crescente aggressività da parte dei regimi autoritari nei confronti del mondo democratico. Qualcuno che è ancora pronto a difendere i patti internazionali – quell’ordine internazionale basato su delle regole che insieme ci siamo dati innanzitutto per salvaguardare e celebrare la vita di ogni singolo individuo al di là dell’interesse personale e politico del potente di turno – c’è.
Qualcuno che non abbassa la cresta dinanzi alle minacce continue – come quella odierna nei confronti di Washington che “sentirà tutte le conseguenze” nel caso la Presidente della Camera statunitense Nancy Pelosi si dovesse recare a Taipei come annunciato – di Pechino c’è.
Verosimilmente non è un tema che troverà molto – anzi probabilmente nessuno – spazio nel dibattito pre-elettorale al quale assisteremo nelle prossime settimane in Italia. Purtroppo. Come ha dimostrato e continua a dimostrare l’aggressione russa in Ucraina, gli effetti dannosi delle politiche interne ed estere dei regimi autoritari inevitabilmente producono degli effetti nefasti anche da noi: dall’economia alle questioni energetiche, dalla disinformazione di massa alle carenze di cibo e le risultanti instabilità geopolitiche e pressioni migratorie per nominarne solo alcuni.
Guardando le mosse fatte da Pechino, il rischio – se non la certezza – è che tali effetti diventeranno sempre più pregnanti nei mesi ed anni a venire. Che le sue minacce non sono vuote, lo sa già bene la piccola Lituania, come prima ne ha subito le conseguenze l’Australia. Entrambi colpiti da sanzioni economici unilaterali per non essersi conformati al diktat politico di Pechino.
Lo sanno bene i detrattori del regime che vivono in perenne paura di essere rintracciati illegalmente da agenti cinesi ovunque si trovino e preferiscono – salvo rare eccezioni – nascondersi nel silenzio ed abdicare i diritti garantiti dalle costituzioni occidentali.
Lo sanno anche le innumerevoli aziende operativi in Russia che hanno pagato a carissimo prezzo le scelte fatte da Putin, ed i loro colleghi con operazioni simili nella Repubblica popolare che guardano – o dovrebbero guardare – con sospetto al crescente rischio per i loro investimenti.
Sono tutti temi che impatteranno la politica italiana in modo profondo nel futuro immediato e a medio termine. Volendo o nolendo, lo slogan adottato da Pechino circa una “nuova guerra fredda” è sempre meno slogan, ma – per mano del regime cinese ed i suoi alleati strategici – una nuova realtà. Una realtà di cui in quanto mondo democratico non possiamo che uscire vincenti, ma che comporterà delle scelte fondamentali. Scelte che non possiamo posticipare a quando verremo “colti di sorpresa” nonostante gli avvertimenti continui arrivati negli ultimi anni a ritmo sempre più accelerato.
È ora di agire. A partire da un piano chiaro che non può semplicemente consistere nell’accodarsi ai Paesi alleati e la direzione dell’Unione europea. Da terza economia dell’eurozona, da Paese del G7, da membro fondatore dell’Ue, l’Italia può e deve assumere un ruolo di responsabilità propria all’interno di un contesto che chiaramente necessità di sempre maggiore coordinamento internazionale.
Il rapporto del Comitato Onu può contribuire a fare tali scelte. Le violazioni continue da parte delle autorità di Hong Kong e Cina descritte nel rapporto stridono con i nostri dettami costituzionali ed impegni internazionali. Una revisione degli accordi che minano tali libertà anche da noi, nonché la sovranità territoriale del nostro Paese, si fa sempre più urgente.
Dall’accordo bilaterale di estradizione agli accordi con il ministero per la Pubblica Sicurezza cinese: un buon punto di partenza per una revisione esaustiva e in tutti i Ministeri della lunga serie di accordi (semi-)sconosciuti con la Repubblica popolare che mettono a rischio la sicurezza nazionale ed economica, nonché la nostra credibilità internazionale.
Nel Regno Unito, il tema è al centro della corsa alla leadership del Partito conservatore tra l’attuale ministro degli Esteri Liz Truss e Rishi Sunak, con comunicati giornalieri che cerchino di convincere l’elettorato che si prenderà una posizione più dura nei confronti di Pechino: dalla chiusura degli Istituti Confucio nelle università alla riduzione della dipendenza strategica per mettere in salvaguardia sicurezza, economia e tecnologia. In Italia, un partito che includerà perlomeno la questione nel suo manifesto elettorale ci sarà?