Per la prima volta in Russia dopo l’invasione. Un soggiorno intenso, emotivamente sfiancante. Ridare stabilità e prevedibilità al sistema internazionale non è pensiero velleitario
La mia insolita assenza dalle pagine di Formiche.net nell’ultimo mese è legata all’aver trascorso giugno 2022 in Russia, visitata per la prima volta dall’inizio della guerra in Ucraina.
È stato un soggiorno intenso, emotivamente sfiancante a tal punto da consigliarmi di concluderlo, prima di scriverne. Nonostante il mio attuale status di “diplomatico di un Paese ostile” (la Repubblica di San Marino ha aderito alle sanzioni contro Mosca), rapporti accademici costruiti da tempo mi hanno permesso di tornare in un Paese oramai inaccessibile come ai tempi sovietici. La visita era a puro titolo personale e cercava di raccogliere la percezione della guerra da parte di decine di esponenti istituzionali e non governativi, anche dell’opposizione, che ho conosciuto nel corso di due decenni trascorsi in Russia, di cui la metà a lavorare per la Commissione europea. Il sorprendente quadro uscito dagli incontri è riassunto in una serie di “appunti viaggio” raccolti in un articolo in uscita sul numero di agosto (7/2022) di Limes, rivista per cui sono corrispondente da Mosca.
Filo conduttore dei vari aspetti riportati negli appunti è la diffusa accettazione locale dello status quo bellico e la rassegnazione ad una guerra di lunga durata, nonostante la consapevolezza dell’alto prezzo che ciò comporterà, anche per i russi. Mi ha colpito che davanti a questa pessima previsione, quasi nessuno degli interlocutori abbia ventilato l’ipotesi di una via d’uscita diplomatica.
L’assenza di soluzioni alternative sul tavolo fa supporre l’ulteriore inasprirsi di uno scontro frontale tra Occidente e Russia, estenuante perché incapace di decretare un vincitore definitivo tra contendenti too big to fail. Eppure, resta una mia convinzione che non tutto è perduto e che la via maestra per uscire da questa impasse la indichi l’esperienza maturata nella Guerra Fredda che ha regolato le relazioni internazionali dopo la seconda guerra mondiale fino al crollo del muro di Berlino.
Non si tratta certo di una nostalgia per un periodo pieno di risvolti drammatici – soprattutto nei totalitarismi a Est – ma di individuarne gli elementi che hanno garantito a oggi il periodo storico più lungo senza guerre in Europa. I conflitti nei Balcani e nell’ex-spazio sovietico sono sorti dopo la fine del bipolarismo e sono stati il risultato di un Sistema Internazionale terremotato nei suoi equilibri fondanti, con epicentro nel vecchio continente. Sono crisi che sarebbero state impensabili durante la Guerra fredda, troppo spesso liquidata come un periodo di stabilità dovuto alla deterrenza nucleare. Se fosse vero, oggi che quell’arsenale è addirittura aumentato, dovremmo a maggior ragione vivere in un mondo (e in un’Europa) senza guerre.
A ben guardare la Cortina di Ferro che caratterizzò quella stagione è molto diversa da quella “2.0” oggi evocata per battezzare la nuova barriera eretta tra Occidente e Oriente. La versione originale era espressione di un bipolarismo che per decenni ha garantito una continuità delle relazioni nel Sistema Internazionale, a partire da una chiara suddivisione delle zone di influenza dei due poli. Che a loro volta erano in perenne contrapposizione reciproca, ma evitando lo scontro diretto.
L’ingrediente base di quell’equilibrio era un costante “coordinamento competitivo” tra i vertici dei due schieramenti che non escludeva colpi bassi dati e ricevuti ma affrontava i passaggi decisivi con codici di comportamento condivisi sugli aspetti fondamentali. Per paradosso, i contatti tra Washington a Mosca erano più intensi all’epoca dei telefoni a filo di quanto lo siano oggi, in piena rivoluzione ITC.
L’efficacia di quel contesto non stava nell’evitare l’emergere di eventuali problemi ma nel riuscire a contenerli in modo tale da non farli arrivare ad un punto di rottura e di non ritorno. Provoca un brivido felino pensare a quali esiti catastrofici porterebbe oggi una crisi missilistica sul modello di quella cubana del 1962, gestita con il carosello di soggetti, azioni (e parole in libertà) dell’attuale dis-ordine mondiale.
Promuovere un coordinamento tra Stati Uniti e Russia per ridare stabilità e prevedibilità al sistema internazionale non è pensiero velleitario di quei pochi, tra cui il sottoscritto, che si ostinano a dichiarare una propria “vicinanza culturale” sia agli Stati Uniti sia alla Russia. Raggruppamento piuttosto affollato negli anni Novanta, andato estinguendosi nel decennio successivo fino a scomparire del tutto oggi. Significa il riproporre una formula di relazioni russo-americane già sperimentata, lungi dall’essere perfetta ma che quando c’era ha dimostrato di funzionare nella gestione della crisi di turno.
A vuote retoriche di cooperazione a fronte di un contesto dove chiunque si sente autorizzato ad intervenire ovunque, è preferibile la schietta contrapposizione di competitor capaci di coordinarsi e che a livello bilaterale riconoscono le reciproche aree di influenza.
È un ritorno al futuro che non a caso dal 2014 (ai tempi della rivoluzione filo-occidentale del Maidan e dell’ annessione russa della Crimea) hanno perorato nomi leggendari delle relazioni internazionali come Henry Kissinger, Mikhail Gorbaciov, Romano Prodi o il compianto Helmut Schmidt.
I loro consigli, spesso veri e propri moniti, sono stati tollerati con un certo fastidio e nella sostanza ignorati dalle attuali leadership mondiali che li hanno trattati come dei residui anacronistici di un trapassato remoto. Invece, per il solo fatto di avere vissuto e gestito la vera Guerra fredda, i leader del bipolarismo sanno bene di cosa parlano e hanno ben altro spessore rispetto a quelli odierni, più preoccupati a scrivere un tweet che a negoziare la pace.
Io non posso contare sull’aura di intoccabilità che ripara questi “grandi vecchi” dall’essere criticati apertamente. Consapevole del rischio di essere additato indistintamente come “filo-amerikano” o “filo-putiniano” nel tritacarne dei media polarizzati, tuttavia mi unisco con convinzione nel mio piccolo all’appello dei “pochi-ma-buoni” a mettere al primo punto dell’agenda internazionale il ritorno di un vero dialogo diretto russo-americano. Da subito, a vantaggio della pace e dell’Europa.
Altrimenti non se ne esce.