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Una globalizzazione poliedrica che unisce nelle diversità. Il papa in Quebec

La denuncia, la condanna, la vergogna, l’indignazione, appartengono ormai al consolidato del viaggio del papa fra Canada e Quebec e del riconoscimento della complicità di tanti cattolici con il sistema colonialista e assimilazionista. Ora si tratta di procedere. Verso cosa? In una parola: pluralismo

Quanti assimilazionismi esistono al mondo? Perché, a parole, l’assimilazionismo dei popoli nativi (le Prime Nazioni) ci appare tanto riprovevole quanto evidente ma gli altri no? L’assimilazionismo che il papa ha denunciato in Canada a danno di quei 634 gruppi con 50 diverse lingue tra i quali ormai sappiamo esserci anche i meticci, o Metis, gli Inuit, o eschimesi, sono stati ridotti nelle loro riserve per l’importanza del nome di Dio o per l’importanza delle loro risorse e delle loro terre, sconfinate? Indubbiamente nel 1537 Paolo III difese i diritti di quei popoli, ma senza citare espressamente il tema che poi sarebbe decisivo della proprietà terriera. Il primo intreccio tra fede e colonialismo è stato questo: la dizione di terre nullius (terre di nessuno) fu cattolica perché prodotta dall’intreccio tra interessi delle nazioni cattoliche e di una mal compresa “evangelizzazione” che in realtà era assimilazione.

Anche per questo le scuole, cattoliche e protestanti, furono uno degli strumenti principali per “omologare” questi popoli. La mancata allocazione di risorse soprattutto per la sanità fece esplodere violente epidemie tra di loro, con una mortalità infantile altissima, 19 volte superiore alla media nazionale. La spesa statale per questi bambini era meno della metà di quella per gli altri bambini.

Le scuole residenziali servivano dunque a sottrarre i “cuccioli d’uomo” alla loro cultura, impedirgli di parlare nella loro lingua, praticare i loro riti. Assimilarli alla cultura occidentale, definita “canadese”. Gli abusi che i bambini subirono in quelle scuole rientrano in questo più ampio abuso, e così, quando morivano, venivano sepolti senza indicazione del nome, per evitare di avere noie con la famiglia d’origine. Se è vero che la sensibilità del Vaticano a questa piaga non origina con Francesco, io penso che Francesco abbia capito più intimamente di altri perché nel suo Paese, l’Argentina, i figli di famiglie “comuniste” venivano sottratti ai nuclei originari e “assimilati” alla cultura accettata dalla giunta Videla, rescindendo ogni legame tra i neonati o i piccolissimi e i loro genitori, che non sapevano più nulla di quei piccoli, ai quali si cambiava anche il nome. La vera alternativa all’assimilazionismo quale sarà se non il pluralismo?

Il famoso slogan “Dio, patria, famiglia” diviene così più chiaro. E diviene più chiaro anche il discorso che Francesco ha pronunciato ieri sera appena giunto alla “Citadelle de Québec, dopo l’incontro privato con il governatore generale del Canada, Mary May Simon, e con il primo ministro Justin Trudeau, rivolgendosi alle autorità civili, ai rappresentanti delle popolazioni indigene e al corpo diplomatico”. Così scrive il portale vaticano Vaticannews, sottolineando subito che il papa ha invitato “ad attingere alla sapienza, alla cultura e alla laboriosità dei popoli autoctoni per recuperare un’armoniosa visione del creato e sane relazioni sociali”.

La denuncia, la condanna, la vergogna, l’indignazione, appartengono ormai al consolidato di questo viaggio e del riconoscimento della complicità di tanti cattolici con questo sistema colonialista e assimilazionista. Ora si tratta di procedere. Verso cosa? Io riassumo la sua indicazione in una parola: pluralismo. Lui ha detto così: “Se un tempo la mentalità colonialista trascurò la vita concreta della gente, imponendo modelli culturali prestabiliti, anche oggi non mancano colonizzazioni ideologiche che contrastano la realtà dell’esistenza, soffocano il naturale attaccamento ai valori dei popoli, tentando di sradicarne le tradizioni, la storia e i legami religiosi”.

Stiamo ancora alla sintesi proposta dal portale vaticano, che del discorso di Francesco sottolinea la denuncia di “una moda culturale che uniforma, rende tutto uguale, non tollera differenze”, si concentra solo sul presente, “sui bisogni e sui diritti degli individui, trascurando spesso i doveri nei riguardi dei più deboli”. Ossia i poveri, i migranti, gli anziani, gli ammalati, i nascituri, “dimenticati nelle società del benessere” e scartati “nell’indifferenza generale”.

Quella di cui parla il papa è la cultura dell’io sovrano, che molti anni fa Pier Paolo Pasolini vide nel genocidio culturale perpetrato dal consumismo ai danni di cultura operaia e contadina. L’io sovrano è parente molto prossimo dell’io consumatore e consumista, di quell’unica cultura che Pasolini vedeva nel consumismo.

L’appello al pluralismo è interno al discorso che Francesco fa da sempre sulla globalizzazione: non sia una globalizzazione piatta, che elimina le differenze rendendo tutti uguali rispetto al centro, come accade nelle sfere, ma una globalizzazione poliedrica, che unisce nelle diversità. È il pluralismo culturale, che riconosce che il mondo è tenere insieme i mondi. E infatti parlando in Canada ha presentato così il simbolo del Canada, l’albero dell’acero. Stiamo anche alla sintesi ufficiale del passaggio sugli aceri: “Le loro ‘ricche chiome multicolori’ ricordano l’importanza dell’insieme, di portare avanti comunità umane non omologatrici, ma realmente aperte e inclusive. E come ogni foglia è fondamentale per arricchire le fronde, così ogni famiglia, cellula essenziale della società, va valorizzata”. E invece a minacciarla oggi sono “violenza domestica, frenesia lavorativa, mentalità individualistica, carrierismi sfrenati, disoccupazione, solitudine dei giovani”, abbandono dei più fragili. Eppure, nelle famiglie indigene, “già da bambini si impara a riconoscere che cosa è giusto e che cosa sbagliato”, osserva il pontefice, “a dire la verità, a condividere, a correggere i torti, a ricominciare, a rincuorarsi, a riconciliarsi”. Ma è la frase testuale e successiva quella più importante: “Il male sofferto dai popoli indigeni, di cui oggi proviamo profonda vergogna, ci serva oggi da monito, affinché la cura e i diritti della famiglia non vengano messi da parte in nome di eventuali esigenze produttive e interessi individuali”.

Che cos’è dunque questa “famiglia” per Francesco? Anche qui non posso non ricordare Pasolini per il quale non si capì che il potere era cambiato: il potere non era più clerico-fascista, basato cioè sul citato motto “Dio, patria, famiglia”. Il nuovo potere era consumista. Il vecchio potere che Pasolini definiva clerico-fascista lo vediamo bene nelle scuole residenziali: il nuovo Dio, la nuova Patria, la nuova Famiglia.

E il nuovo? Il nuovo è quello che emerge nelle ultime parole del papa, che evidenziano la centralità delle esigenze produttive e interessi individuali. La famiglia di cui parla Francesco non è quella del trittico clerico-fascista, ma quella di cui ha scritto il direttore dell’Osservatore Romano, Andrea Monda: “Siamo figli di una storia da custodire. Non siamo individui isolati, non siamo isole, nessuno viene al mondo slegato dagli altri. Le nostre radici, l’amore che ci ha atteso e che abbiamo ricevuto venendo al mondo, gli ambienti familiari in cui siamo cresciuti, fanno parte di una storia unica, che ci ha preceduti e generati. Non l’abbiamo scelta, ma ricevuta in dono; ed è un dono che siamo chiamati a custodire. Il secondo è che oltre che figli di una storia da custodire siamo artigiani di una storia da costruire. […] I nostri nonni e i nostri anziani hanno desiderato vedere un mondo più giusto, più fraterno e più solidale e hanno lottato per darci un futuro. Ora, tocca a noi non deluderli. Sostenuti da loro, che sono le nostre radici, tocca a noi portare frutto. Siamo noi i rami che devono fiorire e immettere semi nuovi nella storia”.

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