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Putin blinda Sakhalin. Fuori aziende inglesi e giapponesi dall’energia russa

Un decreto del presidente russo mette Mosca in pieno controllo di uno dei più grandi reservoir di gas del mondo, sotto alle isole Sakhalin, nel Pacifico. Il rischio di una perdita di investimento per aziende americane e giapponesi, mentre la mossa del Cremlino è un chiaro contrattacco alle sanzioni sull’Ucraina

Il presidente russo Vladimir Putin ha alzato la posta in gioco in una guerra (geo)economica con l’Occidente e i suoi alleati, con un decreto che prevede il pieno controllo del progetto petrolifero e di gas Sakhalin-2 nell’estremo oriente della Russia.

Si tratta di una mossa che potrebbe costringere la britannica Shell e due investitori giapponesi ad abbandonare il progetto. Sakhalin è un’isola che segna l’estremo oriente russo, in pieno Oceano Pacifico e insieme alle isole Kuril (contese tra Russia e Giappone) forma l’oblast omonimo: si trova al nord dell’isola di Hokkaido, da cui è divisa dallo Stretto di La Perouse.

Un lineamento geopolitico molto delicato, attorno a cui anche recentemente c’è stato uno show of force russo-cinese. Una ventina di navi militari sono state mandate in esercitazione prima che il premier nipponico Fumio Kishida prendesse il volo per il vertice Nato di Madrid.

Il decreto russo, firmato giovedì 30 giugno, crea una nuova società statale che assume tutti i diritti e gli obblighi della Sakhalin Energy Investment Co, di cui Shell e le due società commerciali giapponesi Mitsui e Mitsubishi detengono poco meno del 50%.

Cinque pagine con cui Vladimir Putin fa seguito alle sanzioni occidentali imposte a Mosca per l’invasione dell’Ucraina, conferendo al Cremlino la facoltà di decidere se i partner stranieri potranno rimanere nella joint venture –  avranno tempo un mese per presentare richiesta di inclusione, e il governo russo potrà decidere se concederla o (probabilmente) negarla.

La mossa interessa un reservoir – composto dai campi di Piltun-Astokhskoye e di Lunskoye – che più o meno rappresenta il 4% della produzione mondiale di gas naturale liquefatto (Gnl). Una decisione che avvantaggia la russa Gazprom, che detiene azioni del consorzio Sakhalin Energy Investment Company – il quale da adesso deterrà l’intero piano estrattivo.

Secondo il decreto “misure economiche speciali nel settore dei combustili e dell’energia”, Gazprom manterrà la sua quota, ma gli altri azionisti dovranno chiedere al governo russo di partecipare alla nuova società entro un mese. Il governo deciderà poi se consentire loro di mantenere una partecipazione.

Il rischio è di produrre serie ripercussioni sul mercato del Gnl, già piuttosto turbato dalla guerra russa in Ucraina. La scelta di Putin crea anche un ulteriore presupposto per lasciare la Russia, decisione già presa da diverse aziende internazionali sia per ragioni etiche e molto più per questioni commerciali legate alle sanzioni europee e statunitensi.

Ma quanto fatto da Putin aggiunge complicazioni a questo già complesso processo di uscita. Mosca per altro sta preparando una legge, che dovrebbe essere approvata a breve, per consentire allo Stato di confiscare i beni delle aziende occidentali che decidono di andarsene.

Alcune fonti hanno dichiarato alla Reuters che la Shell ritiene che vi sia il rischio che la Russia nazionalizzi i propri beni, mentre Putin ha ripetutamente affermato che Mosca si vendicherà contro gli Stati Uniti e i suoi alleati (nel caso Giappone e Regno Unito) per il congelamento dei beni russi e altre sanzioni.

Shell, che ha già svalutato il valore di tutti i suoi asset russi, ha chiarito mesi fa la sua intenzione di abbandonare Sakhalin-2 e ha avviato colloqui con potenziali acquirenti (in testa sembra esserci il consorzio indiano che comprende ONGC Videsh e Gail). Venerdì ha dichiarato di stare valutando il decreto russo.

Sakhalin-2, di cui Shell detiene una partecipazione del 27,5% meno una azione, ha una produzione di 12 milioni di tonnellate, con carichi destinati principalmente a Giappone, Corea del Sud, Cina, India e altri Paesi asiatici. La giapponese Mitsui ha una partecipazione del 12,5% e Mitsubishi ne detiene il 10%.

Tra i Paesi potenzialmente più coinvolti c’è il Giappone, che soffre una dipendenza pesante dall’energia importata, e che per questo non avrebbe intenzione di sganciarsi dal progetto.

Il primo ministro Kishida ha dichiarato venerdì che la decisione della Russia non fermerà immediatamente le importazioni di Gnl dal sito, mentre il ministro dell’Industria giapponese, Koichi Hagiuda, ha affermato che il governo non considera il decreto una requisizione.

Tokyo è in una posizione complessa: ha scelto una linea severa nei confronti dell’aggressione russa in Ucraina, sposando la filosofia occidentale soprattutto sul fronte della condivisione di valori e regole democratiche.

Strategicamente questa linea serve anche come auto-difesa davanti alle questioni contese con Mosca, come le isole Curili, e all’assertività cinese nella regione dell’Indo Pacifico. Dall’altra parte però soffre certe forme di dipendenza.

Il Giappone dispone di 2-3 settimane di scorte di Gnl detenute dalle utility e dai fornitori di gas delle città. Sono praticamente niente, e per questo il governo Kishida ha già chiesto alle controparti statunitensi e australiane forniture alternative con cui compensare quel 10% di gas importanti annualmente dalla Russia – Gnl che arriva per lo più con un contratto a lungo termine da Sakhalin-2.

 


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