Mantenere rapporti commerciali con gli importatori europei di gas è fondamentale per la Russia, che punta a usare le forniture come leva. L’intervento di Diego Gavagnin, esperto di politica energetica, e Vittorio D’Ermo, economista dell’energia
Domenica scorsa abbiamo cercato di chiarire come la Russia non possa vendere ad altri Paesi, se non tra molti anni e a costi altissimi, il gas fornito agli europei via gasdotto (residuale quello che può esportare via nave).
Per una curiosa coincidenza, 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo, la TASS ha fatto sapere – senza dare i necessari dettagli per poterlo verificare – che nel primo semestre la Russia avrebbe aumentato del 63% le esportazioni alla Cina dai giacimenti nella costa del Pacifico, con gasdotti costruiti dal 2011 per rifornire Vladivostok dall’isola di Sakhalin.
Notizia prontamente rilanciata da Ansa e Rainews, anche se si tratta di quantità minime. Da quei giacimenti la Russia ha consegnato nel 2021 alla Cina circa 10 miliardi di metri cubi e anche un più 63% all’anno non è confrontabile con i 190 miliardi abituata a fornire all’Europa (di cui circa 150 con obbligo di consegna).
Questa situazione offre agli europei un potere di mercato verso Vladimir Putin che Mario Draghi ha prontamente colto per indurre la Russia a trattare la pace. Quando possibile, l’Europa può decidere di non comprare mai più gas russo, organizzando forniture alternative come sta facendo. Se fosse una decisione politica, svincolerebbe le imprese dall’obbligo di ritiro del gas.
Mantenere rapporti commerciali con gli importatori europei di gas è quindi fondamentale per la Russia. Non a caso ha addotto la causa di forza maggiore (impugnata dagli importatori) per la riduzione delle forniture dal gasdotto baltico degli scorsi giorni, e adesso sta riportando i flussi a livello normale.
Putin ha tre opzioni per l’uso ricattatorio delle forniture di gas.
La prima: chiudere del tutto i rubinetti e metterci in gravi difficoltà, perché fino almeno all’inverno 2023-2024 l’Europa non sarà in grado di fare a meno del suo gas. Sarebbero necessari razionamenti e altre iniziative di risparmio, come quelle proposte ieri dalla Commissione europea, che prevede tagli del 15% a imprese e famiglie (prima volontari poi obbligatori in caso di blocco). Decisione che può dare vantaggi immediati d’indebolimento della volontà dell’Occidente di supportare l’Ucraina ma suicida, perché precluderebbe per tanto tempo, se non per sempre, la ripresa delle vendite verso l’Europa. E poi il rischio delle sanzioni, perché se non consegna il gas dei contratti pluriennali (i 150 miliardi) la Russia sarà chiamata a pagarci i danni e se non paga potremo sequestrare i suoi beni.
La seconda: inondarci di gas, anche se provocherebbe un crollo dei prezzi. Per un po’ di tempo può compensare grazie agli extra profitti incamerati dalla scorsa estate con le quotazioni folli che ha scientemente determinato. Questa mossa metterebbe in crisi le attuali iniziative per approvvigionamenti alternativi. Non tanto per la realizzazione delle infrastrutture, che è bene fare in ogni caso per essere pronti a ogni evenienza e opportunità futura, quanto per le forniture. Si tratta, infatti, di sottoscrivere nuovi contratti di acquisto pluriennali, come quelli che stiamo trattando con l’Algeria e altri Paesi, che implicano investimenti in nuovi giacimenti ed estrazioni da parte dei produttori. Parte di queste forniture sono già assicurate, e la dipendenza dalla Russia sta scendendo. Ma chi potrà firmare nuovi contratti e a che prezzi se oltre alle forniture obbligate (che dovrà consegnare entro l’anno) la Russia ricominciasse a offrire anche il gas a pronti? Sono altri 40 miliardi, minimo. Con un prezzo del gas che tornasse agli storici 20 euro MWh, rispetto ai 160 attuali, quale governo potrebbe rifiutarsi di comprare quello russo sotto la pressione di imprese, opinioni pubbliche e gli amici del “ravveduto” Putin, come sarebbe subito consacrato? E in ogni caso, se decidessimo di comprare tutto da tutti, dove lo metteremmo? La capacità degli stoccaggi è limitata, e nonostante la presente situazione di carenza di gas non si ha notizia di investimenti per la loro espansione. Bisognerebbe invece pensarci, come già si fa con gli stoccaggi strategici di petrolio.
La terza, quella cui stiamo assistendo: una politica di “stop and go” collegata alle manovre militari e alle vicende politiche interne dei Paesi europei. Anche qui è curiosa la coincidenza della caduta di Draghi, tra i più fieri difensori dell’Ucraina, con la riapertura dei rubinetti del Baltico. Il più grande vantaggio per Putin dello “stop and go” è il clima d’incertezza che determina nelle scelte politiche ed economiche. Oltre che nelle opinioni pubbliche. La gestione delle incertezze e la difficoltà di prendere decisioni con impatto sul medio-lungo termine sono tra i fattori di maggior debolezza delle democrazie.
Di fronte a questi scenari la scelta più plausibile è quella di proseguire con convinzione sulla via della diversificazione dal gas russo almeno nella misura necessaria per rendere eventuali mancanze meno distruttive. Tenere duro, non farsi abbindolare da chi regala e a piacere toglie le caramelle. L’antica ricetta della diversificazione per provenienza e tipo di gas, purtroppo poco rispettata, resta sempre la soluzione migliore.