La nostalgia del leader è certamente una delle ragioni, e non secondaria, che ha indotto tanti a guardare con simpatia, se non con malcelata ammirazione, agli autocrati orientali. Il commento di Luciano Bozzo, professore di Relazioni internazionali e studi strategici dell’università di Firenze
Nella prefazione del 1949 alla prima edizione inglese a cura del sinologo Richard Wilhelm dell’I Ching, il Libro dei Mutamenti, antico testo sapienziale cinese, Carl Gustav Jung scrisse che la cultura di cui quel libro è espressione legge la realtà secondo lo “strano principio” della sincronicità. Sincronicità significa che ciò che in Occidente definiamo “coincidenza”, spaziale e temporale, di eventi diversi e apparentemente non collegati è tutt’affatto casuale. Se certi eventi si manifestano assieme è perché sono in qualche maniera interdipendenti, tra di loro e con la condizione psichica dell’osservatore, sebbene non legati da rapporti di causa-effetto. Essi hanno cioè una medesima “cifra”, sono espressione di una stessa situazione, quindi rispondono e rivelano quella “qualità dei tempi” di cui scrive anche il Machiavelli nel De Principatibus.
Il 7 luglio Boris Johnson ha annunciato le sue prossime dimissioni dalla carica di primo ministro britannico. Il giorno successivo è stato assassinato l’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe. In questi stessi ultimi giorni negli Stati Uniti tornano prepotenti le voci sul declino cognitivo del presidente Joe Biden, il cui indice di gradimento è crollato sotto al 40%. In Sri Lanka i manifestanti assaltano la residenza del presidente, dilettandosi in un bagno di massa nella piscina. Altri manifestanti assaltano e danno alle fiamme la sede del parlamento a Tobruk, protestano nelle strade di Bengasi, Misurata e Tripoli. Johnson e Abe, checché se ne pensi sotto il profilo politico, sono stati figure iconiche, popolari e amate da ampi strati delle rispettive opinioni pubbliche. L’uno ha prima scommesso e poi dato impulso alla Brexit, imprimendo il proprio marchio sul processo che ha condotto il Regno Unito fuori dall’Unione europea, l’altro è stato a lungo il grande tessitore della politica interna ed estera giapponese, raffreddando il rapporto con la Cina e avvicinando il Paese all’India. Nell’uno e nell’altro caso i candidati o auto-candidati alla successione, rispettivamente nel Partito conservatore e di quello liberal-democratico, o come capo del governo del Regno Unito, sono molti, addirittura una dozzina per quanto riguarda la premiership britannica.
Nel Regno Unito, in Giappone e probabilmente negli Stati Uniti si è aperta una fase d’incertezza, che potrebbe prolungarsi nel tempo e proprio in un momento storico in cui più si avverte, urgente, il bisogno di leader e capacità di leadership. Che “la qualità dei tempi” non sia favorevole alle figure e al ruolo del leader pare evidente alla luce di altre coincidenze significative: la fine dell’era Merkel, difficile da sostituire nel ruolo che ha ricoperto per sedici anni dalla figura un po’ grigia del nuovo cancelliere, l’esito delle elezioni politiche che contribuisce a indebolire il president francese Emmanuel Macron a sua volta in crisi di consensi, la poca incisività, per usare un eufemismo, dell’elegante, algida presidente della Commissione europea. L’aumento del prezzo dei cereali dovuto alla guerra in Ucraina può inoltre innescare, come già avvenne nell’inverno 2010-11, nuove “primavere arabe” nel Maghreb, travolgendo le poco amate élite politiche locali.
La nostalgia del leader è certamente una delle ragioni, e non secondaria, che nel nostro come in diversa misura altri Paesi europei occidentali ha indotto tanti a guardare con simpatia, se non con malcelata ammirazione, agli autocrati orientali. Il neo-sultano, l’ultimo zar e l’erede della sede del celeste impero sono apparsi gli unici, “veri” leader, capaci di rispondere o comunque di resistere con successo alle molteplici sfide e alle crisi scatenate dal compimento dei processi di globalizzazione. A ben vedere accadde qualcosa di simile negli anni Trenta dello scorso secolo, quando i grandi regimi autocratici e i rispettivi leader parvero anche nell’Occidente delle democrazie liberali in grado di meglio fare fronte, da un lato, alla sfida sociale e politica frutto dell’industrializzazione e, dall’altro, alla crisi del modello dell’economia di mercato seguita al giovedì nero di Wall Street dell’ottobre 1929. Anche allora non pochi furono in Occidente gli ammiratori, a iniziare da intellettuali e membri tra i più influenti delle élite politiche, del ri-fondatore dell’impero, dell’artefice del Reich presunto millenario o dell’ospite delle mura del Cremlino, non meno terribile di un celebre predecessore. Le speranze degli allora ammiratori, la fiducia riposta in coloro che, unici, avrebbero potuto rispondere all’inarrestabile “decadenza” e tramonto dell’Occidente andarono, si sa, deluse, alcune nel giro di solo pochi anni, altre qualche decennio più tardi.
Allo stato attuale delle cose la performance dello stratega del Cremlino in Ucraina non appare peraltro molto diversa da quelle dei peggiori predecessori. In realtà, a Ovest come a Est, il problema è uno: un sistema internazionale sempre più complesso e sempre meno intellegibile, il dis-ordine caotico globale. Le risposte a questo stesso problema sono invece due e perfettamente antitetiche: da un lato, il progressivo sgretolarsi di ogni forma di autorità, la fuga in avanti, ovvero quella “corsa verso il nulla” di cui al titolo dell’ultima pubblicazione del Maestro dei miei Maestri; dall’altro, il volgersi indietro, a Caterina la Grande, a Maometto II, se non a Confucio.