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A Villa Taverna la crisi non entra. Cronache dalla serata americana

Tra hamburger e jazz session, la maretta del governo Draghi non entra al ricevimento per il 4 luglio a Villa Taverna. In fila per una foto con Nancy Pelosi, i leader italiani si mostrano schivi, chi più chi meno, evitano assembramenti. E i salviniani si difendono: “Crisi? Chiedete ai grillini…”

Roma, Villa Taverna. Se non è il “patto degli hamburger” poco ci manca. Un patto di desistenza. All’ombra della bandiera americana, radunata all’ambasciata per la festa del 4 luglio, la politica italiana sotterra l’ascia di guerra. La jazz session sul palco, interrotta solo dal saluto alla bandiera e dalle note di Mameli e The Star-Spangled Banner, soffoca gli scricchiolii del governo Draghi, che restano alla porta.

Sfilano tutti, o quasi, per salutare il chargé d’affairs Thomas Smitham in partenza e il nuovo arrivato, Shawn Crowley. È “l’anno dei due due ambasciatori”, “anzi di tre”, scherzano in fila. Sì perché ad attendere i questuanti c’è una guest-star. Nancy Pelosi, speaker del Congresso e pilastro portante dei democratici americani, è a Roma per una visita istituzionale. Forse per prepararsi a prendere le redini della missione italiana, messe da parte le elezioni di metà mandato, mormorano sul pratone della residenza. Ma sono solo voci, nessuna conferma.

Madame Speaker ha visto i presidenti di Camera e Senato Roberto Fico ed Elisabetta Casellati, al Quirinale Sergio Mattarella. Dunque il ricevimento in ambasciata, dove attende con pazienza uno ad uno gli ospiti per una stretta di mano, una battuta. Una foto per i più stretti, come Pier Ferdinando Casini. La manca di un attimo Matteo Salvini, in fila con qualche minuto di anticipo, stretto a Francesca Verdini.

La cerca chiunque. All’appuntamento si presentano puntali i leader da una parte e l’altra dell’emiciclo. Salvo Enrico Letta, impegnato a dirigere la direzione del partito, tutti presenti. Chi più sfuggente, come Giuseppe Conte, reduce da un duello in punta di sciabola con il premier Mario Draghi, reo a suo dire di aver suggerito a Beppe Grillo di rimuoverlo dalla testa del Movimento Cinque Stelle.

Chi invece si gode il palcoscenico. È il caso di Luigi Di Maio: la cera distesa del ministro degli Esteri, fresco di una “scissione atlantista” con gli ex compagni di partito, tradisce una lieta baldanza. Pelosi casca perfino in un lapsus, “Di Maio è un grande americ…volevo dire, un grande amico dell’America”. Dopotutto il ministro gioca in casa, e infatti è l’unico a salire sul palco a ripassare i fondamentali. “Non possono esserci dubbi da che parte stare della storia”, spiega sulla guerra russa in Ucraina, l’Italia “sta saldamente nella Nato”. Gli fa eco Lorenzo Guerini, il ministro della Difesa tornato dal raduno della Nato a Madrid, “un summit storico”.

Passeggia serena anche Giorgia Meloni, che con le stelle e le strisce ha ormai una certa confidenza, la più cercata dagli sguardi indiscreti dei presenti e dai bigliettini da visita che piovono dai taschini, metti mai che l’anno prossimo torni da ministro, magari da premier.

È un ricevimento sui generis, per chi conosce riti e ritmi di Villa Taverna. Meno affollato, è il primo in presenza dopo due anni di restrizioni da pandemia. Meno affannato, messo a confronto con gli ultimi due, entrambi segnati dall’era del governo gialloverde, il primo a battezzare l’asse Lega-M5S alla prova dei rapporti atlantisti, il secondo già adombrato dall’imminente divorzio, il Papeete, il Conte-bis sullo sfondo.

Quest’anno niente capannelli di cronisti, dichiarazioni strappate, sibili e frecciatine tra amici veri e presunti. I capi-partito si concedono solo alla brace e agli hamburger, da sempre il bottino più ambito. Per il resto si ignorano, si negano agli obiettivi. Sarà la guerra in Ucraina, sarà il venticello di crisi che inizia a spirare tra i corridoi di Palazzo Chigi, la prudenza è massima.

Chissà che la calma non duri, almeno fino all’autunno. “Non chiedetelo a noi, chiedetelo ai grillini, o a quel che ne resta”, sogghigna un fedelissimo di Salvini mentre agguanta un hot-dog. Quando il cielo si illumina di fuochi d’artificio, i “big” sono già tutti fuori. Pronti a rituffarsi nella trincea della politica italiana, tra fuoco amico e strappi minacciati. Se la crisi c’è, almeno quest’anno, a Villa Taverna non ha messo piede.

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