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Perché l’accordo Calenda-Letta è più che buono per il Paese. Scrive Polillo

L’accordo tra Carlo Calenda ed Enrico Letta è buono, innanzitutto, sul piano programmatico. L’esperienza di Mario Draghi non rappresenterà una “parentesi” da dimenticare, al contrario, delineerà le coordinate future. Il Paese ha un bisogno oggettivo di governo e alla fine si affermeranno quelle forze politiche che, meglio di altre, ne sapranno declinare le necessarie funzioni. L’analisi di Gianfranco Polillo

Buono, più che buono, l’accordo tra Carlo Calenda ed Enrico Letta. Buono, innanzitutto, sul piano programmatico. L’esperienza di Mario Draghi non rappresenterà una “parentesi” da dimenticare, per tornare a tessere la tela degli anni precedenti. Al contrario, delineerà le coordinate future. E lo farà, con maggiore intensità, se il centrosinistra vincerà le elezioni. Ma anche in caso contrario, qualora dovesse essere il centrodestra a conquistare Palazzo Chigi, i suoi effetti si faranno comunque sentire.

Basti vedere a quel che sta avvenendo all’interno di quello schieramento. Con Silvio Berlusconi, che rilancia vecchi cavalli di battaglia dalle pensioni agli alberi da piantare. E Matteo Salvini che si comporta come se avesse traslocato nel Paese del Bengodi: flat tax al 15 per cento, riduzione dell’Iva, quota 41 (contributi versati) per le pensioni senza alcun riferimento all’età anagrafica (in teoria anche 55 anni d’età), pace fiscale e rottamazione delle cartelle. Più che fredda e giustamente preoccupata la reazione di Giorgia Meloni, che mette i piedi, oltre che le mani, in avanti.

L’Italia di questi mesi pre-elettorali dovrebbe far riflettere. Il suo ritmo di crescita complessivo è tale da far invidia all’intera Europa. Insieme alla Spagna al vertice della classifica continentale, mentre la Francia cresce leggermente meno e la Germania rischia di trovarsi in recessione. Cosa che per gli States, almeno da un punto di vista tecnico, è già una certezza. La tenuta dei conti pubblici è tale da poter garantire i “ristori” promessi e quindi ridurre gli effetti peggiori del processo inflazionistico sui più fragili.

Se quelli de Il fatto quotidiano avessero un minimo d’amor proprio, invece di continuare a piangere per l’avvenuto “Conticidio”, dovrebbero battersi il petto. Fosse stato ancora in piedi il governo gialloverde, non sarebbe stato facile resistere alla perentoria richiesta di Matteo Salvini: uno sforamento ulteriore di 50 miliardi di euro, capace di mandare lo spread sui titoli italiani alle stelle. Bene, pertanto, l’essere partiti dalla proposta, per poi far camminare l’alleanza con le gambe della politica. Nessun elemento divisivo, nei collegi uninominali, ma l’eventuale “diritto di tribuna” riservato solo nel proporzionale.

L’impianto complessivo, come si vede, ha una sua coerenza. Al punto da marcare una forte discontinuità con le passate esperienze. A Carlo Calenda è riuscito, ma quelli erano altri tempi, ciò che invece fu negato a Giorgio Napolitano. Al quale Massimo D’Alema pose l’aut aut: se vuoi continuare a svolgere un ruolo nel partito, devi sciogliere la corrente dei “miglioristi”, di cui lo stesso Napolitano era indubbiamente il leader. La ragione? Ma perché la cosiddetta “destra” era comunque vista come una quinta colonna, in combutta con gli ambienti borghesi. Storica la definizione di Enrico Berlinguer, nei confronti di Bettino Craxi: colpevole di aver favorito una “mutazione genetica” dei socialisti: un tempo à la De Martino.

Nessuna voglia di recriminare. Anche quella passata aveva una logica. Compito principale del PCI non era quello di governare il Paese. Gli accordi di Yalta lo avrebbero impedito. Doveva garantire un presidio, per contribuire a mantenere in equilibrio i rapporti di forza tra i due blocchi contrapposti: Usa da un lato ed Urss dall’altro. Lo spirito, pertanto, non poteva essere che quello di estendere al massimo la propria rappresentanza parlamentare, facendo leva sull’ecumenismo dei Comitati di liberazione nazionale. Quindi la dirigenza effettiva del partito non poteva che essere di “centro”: Palmiro Togliatti che vuole in segreteria sia Giorgio Amendola sia Pietro Ingrao. Lo stesso Berlinguer che non si allontana da quello schema, anche se lo spettro dei suoi più stretti collaboratori si sfaccetta.

Cambierà tutto con l’89. Il crollo dell’Urss renderà obsoleta la semplice funzione della rappresentanza parlamentare. In un mondo sempre più competitivo, le politiche di governo assumono una centralità nuova, che spiazza la vecchia tradizione del Pci. Nonostante i tentativi, anche generosi, di colmare un vuoto. Ma sarà un compito molto più difficile di quanto a prima vista potesse sembrare. Il piombo di una lunga tradizione di semplice opposizione (il morto), afferrerà il vivo, in un compromesso sempre al ribasso. Si pensi alla figura di Achille Occhetto, uomo di grande coraggio nel superare il giudizio storico nei confronti di Mosca, ma poi incapace di individuare una rotta effettivamente riformista.

Con l’accordo appena sottoscritto tra Carlo Calenda ed Enrico Letta, si può dire, che forse per la prima volta quello schema è consegnato al passato. Vi saranno, ovviamente dei colpi di coda, come hanno mostrato i malumori di Goffredo Bettini e Andrea Orlando. Ma la fase che sta attraversando l’Italia non è più quella delle eroiche astrazioni. Il Paese ha un bisogno oggettivo di governo e alla fine si affermeranno quelle forze politiche che, meglio di altre, ne sapranno declinare le necessarie funzioni.


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