Il dialogo non va interrotto. È l’unica possibilità di mantenere una certa moderazione nel regime di Kabul e una presa d’atto del fatto che nessuno può rovesciarlo. L’analisi di Carlo Jean
Dal punto di vista geopolitico, l’Afghanistan occupa una posizione di rilievo fra l’Asia Centrale e il Subcontinente Indiano. Da Alessandro Magno ai Mongoli ha costituito la via d’accesso dall’Asia Centrale all’India. Oggi, tale ruolo geopolitico è accresciuto dalla possibilità che dia accesso anche al Golfo e che il suo territorio costituisca, da un lato luogo necessario di transito verso l’India del petrolio e del gas e, dall’altro, rappresenti per il Pakistan area di profondità strategica rispetto alla nemica India. Inoltre, l’Afghanistan dispone di risorse naturali valutate dagli USA a 3 trilioni di dollari – con i cinesi che gestiscono una grande miniera di rame – e, con la sua instabilità e radicalismo islamico, rappresenta una minaccia per gli Stati della regione – dall’Uzbekistan al cinese Sinkiang – di cui ospita gruppi terroristici. Con il supporto dato ad al-Qaeda, con ambizioni globali per colpire il “nemico lontano”, cioè l’Occidente, ma non solo, ha rappresentato e, secondo molti rappresenta tuttora un pericolo non solo regionale, ma globale.
Questo spiega perché il Paese sia in guerra praticamente da quarant’anni, da quando, nel dicembre 1979, l’Urss decise l’invaderlo, provocando la reazione degli Usa, appoggiati dall’Arabia Saudita e dal Pakistan. Gli americani decisero, con l’“Operazione Ciclone”, di sostenere la resistenza afgana. Riad fornì denaro e combattenti – i mujaheddin – fanatici salafiti che combatterono in un Paese che aderisce a un’altra scuola dell’Islam. Islamabad fornì addestramento e rifugio per i guerriglieri. Washington, oltre a un consistente sostegno finanziario, fornì armi moderne e supporto d’intelligence satellitare. Gli Usa intervennero soprattutto perché temevano che Mosca volesse trasformare l’Afghanistan in uno Stato satellite e utilizzarlo per sostenere la rivoluzione komeinista in Iran, avvenuta sempre nel 1979, e per avere accesso al Golfo Persico.
Dopo il ritiro sovietico nel 1988, gli Usa si disinteressarono completamente dell’Afghanistan. In sostanza, dopo il loro ritiro del 2021, stanno oggi adottando la medesima politica; isolamento internazionale, sanzioni, condanne per le violazioni dei diritti umani e politici da parte del nuovo governo talebano di Kabul, anche se i media americani lasciano trasparire un senso di colpa per aver nuovamente abbandonato gli afgani – e soprattutto le afgane – al loro destino. Dopo il ritiro dell’Urss, l’Afghanistan ricadde in preda alle sue guerre civili. Esse videro nel 1996 il successo dei Talebani del Mullah Omar, sostenuti dal Pakistan (in particolare all’ISI, suo servizio d’intelligence, che conquistarono Kabul). Essi erano legati ad al-Qaeda, costituita con una cospicua parte dei più radicali mujaheddin arabi. E’ da notare che la loro natura e pericolosità non erano state capite dagli americani, portati a considerarli amici, come lo si vedeva nei film di Rambo.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e a Washington, causarono negli Usa un brusco risveglio, a cui reagirono con consueta violenza ed efficienza militare, dopo che il regime talebano a Kabul aveva rifiutato di consegnare loro Osama bin Laden e i membri di al-Qaeda protetti dai talebani. L’azione americana, si avvantaggiò del sostegno dell’Alleanza del Nord, composta prevalentemente da Tagiki, ma che riceveva il sostegno della Russia, dell’India e dell’Iran, nella sua lotta contro i talebani. Anche il regime talebano attuale conosce varie resistenze ed è tutt’altro che unitario. I Talebani appartengono prevalentemente all’etnia Pashtun. Con il 39% degli afgani essa è maggioritaria, ma tradizionalmente osteggiata dalla decina di altre etnie dell’Afghanistan. Le principali sono: Tagiki (37%), Hazara (10%) e Uzbeki (9%). Ma non esiste, come nel 2001, un fronte unitario anti-talebano. I Tagiki che, con il mitico comandante Massoud, avevano dominato l’Alleanza del Nord, non si sono opposti alla conquista talebana e si sono rifugiati all’estero.
Nessuna potenza esterna appoggia gli oppositori del regime talebano. Le principali minacce al regime talebano provengono dal suo interno: molte delle 34 province in cui è diviso il Paese, aspirano a un’autonomia pressoché completa da Kabul; gli estremisti radicali del Sud del Paese si oppongono ai politici più pragmatici al governo; il clan Haqqani, un cui membro è ministro dell’interno, continua ad appoggiare al-Qaeda; lo Stato Islamico del Khorasan effettua continue azioni di guerriglia nelle regioni orientali e settentrionali; le attiviste femminili effettuano proteste contro gli ukase del “Ministero della Promozione della Virtù e la Repressione del Vizio”, subentrato al vecchio “Ministero degli Affari Femminili“, ma possono combinare poco, eccetto attirare l’attenzione dei media occidentali. Contrariamente al passato, in cui nel governo talebano pre-2001 dominava l’ideologia, attualmente esiste un maggiore pragmatismo derivante quasi sicuramente dalle condizioni disperate dell’economia e delle finanze pubbliche. Anche l’ordine pubblico è migliorato. L’Onu ha riconosciuto una riduzione dell’80% dei blocchi stradali, che vessavano i traffici.
È questo il tasto più efficace di cui dispone l’Occidente per indurre il governo di Kabul di non sostenere il terrorismo. Gli Usa mantengono bloccati 7 miliardi di dollari delle riserve statali afgane. Il loro sblocco progressivo è stato interrotto il 31 luglio, quando l’uccisione a Kabul del capo di al-Qaeda Ayman al- Zawahiri, è stato addotto come prova della continuazione del sostegno dei talebani all’organizzazione terroristica.
Il dialogo non va interrotto. È l’unica possibilità di mantenere una certa moderazione nel regime di Kabul e una presa d’atto del fatto che nessuno può rovesciarlo.