Il Comptroller of Public Accounts del Texas ha avviato un processo che potrebbe portare al divieto per una decina di gestori di attivi americani ed europei, tra cui BlackRock, Bnp Paribas, Ubs e Credit Suisse, di esercitare la propria attività nello Stato della Florida in quanto ritenuti colpevoli di boicottaggio dell’industria petrolifera. Ecco cosa bisogna aspettarsi
Alcuni giorni fa lo State Board Administration della Florida, ente presieduto dal governatore Ron DeSantis che sovrintende alla gestione dei fondi pensione della penisola all’estremo sud-est dell’America, ha vietato loro di considerare fattori diversi dal puro ritorno finanziario nell’elaborazione delle decisioni di investimento.
Pressoché in contemporanea, il Comptroller of Public Accounts del Texas Glenn Hegar ha avviato un processo che potrebbe portare al divieto per una decina di gestori di attivi americani ed europei – tra cui BlackRock, Bnp Paribas, Ubs e Credit Suisse – di esercitare la propria attività nello Stato della Stella Solitaria in quanto ritenuti colpevoli di boicottaggio dell’industria petrolifera, linfa vitale dell’economia texana. Tra le conseguenze più ovvie ci sarebbe il divieto di instaurare rapporti di gestione con i fondi pensione che fanno capo ad Austin.
Si tratta di due episodi che giungono al culmine di uno scontro furibondo originatosi negli ultimi mesi all’interno dell’investment community americana e che ha visto recentemente l’Attorney General dell’Arizona Mark Brnovich chiamare a raccolta con una lettera al Wall Street Journal diciotto suoi colleghi di altri Stati per denunciare apertamente l’atteggiamento di BlackRock, gigante globale con più di 10 mila miliardi di attivi in gestione, considerato dai firmatari in palese contrasto sia con gli interessi degli investitori, in particolare le piattaforme pensionistiche degli Stati in questione, sia con la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. BlackRock viene inoltre apertamente accusata di intelligenza con l’avversario strategico più importante, ossia la Cina.
Al centro della contesa è l’acronimo Esg (Environment social governance), attraverso il quale asset owners e managers di tutto il mondo da qualche tempo orientano le proprie decisioni di investimento avendo riguardo non più solamente al ritorno finanziario ma anche al benessere complessivo, in particolare sul versante ambientale e sociale, che i soggetti cui vengono destinate le loro risorse procurano alle collettività di riferimento.
Per i contestatori, invece, Esg è il paravento attraverso cui si cela quello che viene spregiativamente definito woke capitalism, ossia il supposto asservimento del mondo finanziario, a danno di pensionati e lavoratori, alle detestate politiche liberal promosse da una parte dell’establishment non solo politico di Washington.
Le tensioni drammatiche che pervadono l’intero corpo sociale statunitense, solo in parte spiegabili con l’approssimarsi delle elezioni federali e locali, si scaricano così inevitabilmente sull’universo finanziario domestico, di gran lunga il più liquido e dotato in termini di masse sul piano globale nonché storico vettore di influenza a stelle e strisce, trasponendovi le angosce che animano soprattutto la parte centrale e meridionale del Paese e l’avversione di questa verso la parte costiera più interconnessa col resto del mondo. Ne è dimostrazione l’eco trumpiana che fa da sottofondo alle polemiche suddette, animate dalla paura di essere ripped off, shortchanged, a sua volta riflesso di un guardare al mondo soltanto attraverso il prisma della convenienza economica e il rifiuto categorico dell’onerosità e del sacrificio che la leadership planetaria comporta.
Si tratta di un fenomeno tutt’altro che trascurabile sul piano degli aggregati coinvolti: sebbene distanti dai livelli raggiunti collettivamente dai due fondi pensione californiani CalPERS e CalSTRS (rispettivamente con 426 miliardi e 259 miliardi di attivi; fonte: Thinking Ahead Institute – Willis Tower Watson) e newyorkesi NY State Common e Ny City Retirement (226 miliardi e 225 miliardi), il sistema pensionistico della Florida sovrintende ad assets propri per circa $ 180 mld, il quarto per dimensioni a livello statale, mentre il fondo degli insegnanti del Texas, quinto, si attesta attorno a 162 miliardi. Sul piano della numerica, invece, gli Stati americani sono spaccati esattamente a metà lungo questa linea di faglia.
Quel che più conta, inoltre, è che, qualora il Congresso dovesse esprimere a novembre una maggioranza repubblicana, presumibilmente ancora di ispirazione trumpiana visto l’andamento delle primarie in quel partito, è ragionevole aspettarsi che vengano emanate norme federali destinate ad allargare lo iato tra finanza woke e anti-woke piuttosto che a restringerlo, con conseguenze potenzialmente devastanti sia sui recettori degli enormi flussi di investimento provenienti dai soggetti in questione sia sull’essenza stessa del rapporto fiduciario tra gestori e proprietari di attivi.
Il malessere, peraltro, sta già suscitando reazioni nel resto del mondo, in special modo quell’Europa del Nord particolarmente sensibile ai temi ESG, come testimoniato dalle contestazioni che Federated Hermes, colosso anglo-americano con circa $ 632 mld di assets in gestione e 1.500 miliardi in stewardship advice, deve fronteggiare da parte di alcuni fondi pensione danesi suoi clienti per aver sponsorizzato la State Financial Officers Foundation, entità espressione di 23 direttori finanziari di Stati conservatori americani molto determinata nell’espungere i parametri ESG dai processi decisionali.
Le onde sismiche si propagheranno anche nel nostro Paese? Non c’è dubbio. Può non essere un problema immediato, ma tutti i soggetti coinvolti sia nel private che nel public market – si pensi in particolare alle società quotate – devono già da subito formulare analisi di scenario che contemplino la scissione della propria base di investitori tra un insieme sensibile alle tematiche della sostenibilità, un altro con uno sguardo neutro – forse in quanto costretto a sua volta a mediare rispetto alle istanze dei propri sottoscrittori – e un altro ancora apertamente ostile, a nulla rilevando che il primo possa ancora risultare maggioritario.
Gli interrogativi che dovranno essere costantemente al centro della riflessione nelle sedi deputate saranno: quale sarà l’evoluzione della divaricazione in atto? Aderiranno all’’anti-woke movement anche investitori di Paesi beneficiari di una svolta isolazionista americana – si pensi alla vasta platea di Stati agnostici nei confronti della postura Usa in Ucraina – così da accelerarla? La nuova tendenza implicherà anche il disinvestimento degli assets esteri, in omaggio a un ritrovato ‘patriottismo finanziario’? Troverà sponde a livello politico nel nostro Paese, con eventuali ricadute a livello normativo? Come comporre le diverse visioni in sede di dialogo con gli investitori? Che sintesi trovare a livello di elaborazione del business plan? Ci saranno ripercussioni a livello di governance e di nomine degli organi sociali? Quale sarà la valutazione strategica da parte degli asset managers domestici?
Si tratta di uno sforzo collettivo che dovrà coinvolgere in un confronto serrato l’alta direzione e le strutture che da essa dipendono, quali l’investor relations, la comunicazione e relazioni esterne, gli affari istituzionali e la sostenibilità, nella comune consapevolezza – senza con ciò aderire a facili letture revisionistiche – che la sostenibilità è pur sempre il portato di dinamiche globali guidate da fattori geopolitici, cui dovrà essere attribuito un peso preponderante in sede di analisi per evitare di essere colti di sorpresa mentre si dipanano.