È stato compiuto senz’altro un passo avanti per facilitare lo sviluppo di una tecnologia chiave come il cloud per la transizione digitale italiana. Con un contributo senz’altro positivo anche a quella ecologica. Un altro modo per far stare l’Italia sui binari del Pnrr che nelle due transizioni ha le principali stelle polari. L’intervento di Stefano da Empoli, presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)
Al momento della caduta del governo Draghi, in molti si chiedevano quali potessero essere le sorti del Ddl Concorrenza, uno dei principali obiettivi da conseguire, anche sul piano simbolico, nell’ambito degli impegni dell’Italia propedeutici al versamento della rata di fine anno del Pnrr. L’approvazione definitiva del provvedimento, giunta ieri in terza lettura, fa tirare un sospiro di sollievo sulla capacità del nostro Paese di rispettare la tabella di marcia concordata con Bruxelles. Anche se il traguardo è ancora lontano visto che non mancano come al solito i decreti attuativi, che andranno finalizzati entro la fine dell’anno per rispettare pienamente il target.
Nel mezzo è scomparsa, come noto, la norma che avrebbe riguardato i tassisti, quella che più di tutte, insieme alle concessioni balneari (che invece andranno liberalizzate, sia pure con gradualità), si è guadagnata l’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche. Così come i toni forse più sferzanti usati dal presidente del Consiglio nel suo ultimo passaggio al Senato, a suggellare la rottura con il centrodestra. Tuttavia, sono tante le misure contenute nel provvedimento, in attesa che prima della fine dell’anno, elezioni permettendo, il governo che verrà, oltre a finalizzare i decreti attuativi, presenti un nuovo disegno di legge annuale sulla concorrenza e il mercato. Molti articoli, per intesa tra le forze politiche, proprio per velocizzare i tempi, non sono stati toccati nel passaggio alla Camera, con il Senato che ha poi approvato il testo modificato dai colleghi di Montecitorio.
Tra le principali novità, oltre allo stralcio dell’art. 10, che prevedeva per l’appunto una delega al governo in materia di trasporto pubblico non di linea, quelle riguardanti le semplificazioni per le attività di impresa e per i settori delle telecomunicazioni e delle fonti rinnovabili. In quest’ultimo caso, all’art.26, si prevede tra l’altro una delega al governo, da esercitare entro dodici mesi, per un riordino normativo del settore, in un’ottica di semplificazione, coerenza anche rispetto al quadro europeo e certezza del diritto, agevolando l’avvio delle attività economiche e l’installazione o il repowering degli impianti.
A non essere cambiato, rispetto al testo licenziato in prima lettura dal Senato, è l’art. 33 (ex art. 29), che prevede l’estensione ai mercati digitali del contrasto all’abuso di dipendenza economica, una fattispecie introdotta nel 1998 e finora poco utilizzata, che riguarda in particolare i rapporti di subfornitura e i contratti di franchising, al fine di tutelare i contraenti deboli di fronte a potenziali abusi dell’impresa dai quali risultano dipendenti, in quanto non in grado di uscire dalla relazione esistente se non a costi elevati e/o con ingenti perdite sugli investimenti effettuati. Circostanze caratterizzate da un evidente effetto lock-in.
In un precedente articolo, abbiamo già dato conto delle diverse critiche mosse verso la norma. A partire dal fatto che la presunzione relativa di dipendenza economica sia assente negli altri ordinamenti europei e peraltro è una novità anche rispetto alla norma del 1998. Le perplessità di alcuni si sono dirette anche verso l’eccessiva indeterminatezza dei casi ai quali si applica la norma e al suo enforcement. Anche se, a quest’ultimo proposito, il testo uscito dal Senato ha compiuto qualche passo avanti rispetto alla proposta iniziale, soprattutto nel metodo. Prevedendo l’adozione di linee guida da parte della presidenza del Consiglio dei ministri, d’intesa con il ministero della Giustizia e sentita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per meglio orientare l’applicazione delle norme, rendendole coerenti con la normativa europea (che, come detto, è in rapida evoluzione), e provando a limitare il contenzioso. Tuttavia, come facevamo notare nell’articolo di giugno, se al tempo preoccupava che le disposizioni si applicassero, secondo il dettato legislativo, con effetto immediato (a partire dal 31 ottobre 2022), senza alcuna assicurazione sul fatto che le linee guida fossero adottate prima di quella data o anche in una di poco successiva, oggi questo timore è diventato una certezza, causa elezioni. E chissà se e quando le linee guida vedranno la luce. In barba ai sacrosanti principi della semplificazione, coerenza con le norme di altri ordinamenti e certezza del diritto giustamente evocati in altri articoli della stessa legge. Forse, meglio sarebbe stato, come da più parti suggerito, affidarne il compito, in una materia così complessa e sensibile, a un soggetto terzo e indipendente come l’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Nel frattempo, va ribadita come senz’altro positiva, perché molto meno indeterminata e perfettamente coerente con l’impianto originario alla base dell’abuso di dipendenza economica, l’aggiunta intervenuta al Senato dell’adozione di “pratiche che inibiscono od ostacolano l’utilizzo di diverso fornitore per il medesimo servizio, anche attraverso l’applicazione di condizioni unilaterali o costi aggiuntivi non previsti dagli accordi contrattuali o dalle licenze in essere”. Nel mirino sono soprattutto le policy utilizzate sempre più di frequente negli ultimi anni, non solo in Italia, da alcuni grandi cloud provider integrati. I quali, beneficiando dei forti legami tra i servizi cloud e alcuni prodotti software largamente diffusi e utilizzati nei mercati adiacenti, nei quali detengono una posizione consolidata e in taluni casi dominante, hanno la capacità di offrire servizi integrati secondo modalità che puntano a rafforzare il legame con i propri clienti ma limitano nei fatti la concorrenza, in particolare a scapito dei player non integrati e di dimensioni minori, nuocendo in ultima analisi ai clienti stessi.
Nello specifico, pratiche quali bundling e tying tra prodotti apparentemente distinti, insieme a contratti di licenza restrittivi, interoperabilità limitata tra servizi complementari e lock-in all’interno di ecosistemi proprietari possono essere utilizzate dai provider leader di mercato per favorire la propria infrastruttura cloud ai danni della concorrenza e in ultima analisi dei propri clienti. Con effetti significativi, come dimostra un’indagine condotta all’inizio dell’anno dall’Istituto per la Competitività (I-Com) che ha coinvolto 82 aziende appartenenti ad Assintel, l’associazione nazionale delle imprese ICT e digitali. Basti pensare che, in base ai risultati della survey, uno stop alle pratiche scorrette nel mercato del cloud potrebbe determinare una crescita del fatturato complessivo del comparto ICT nazionale compresa tra €1,28 miliardi e €1,61 miliardi l’anno. Una stima peraltro conservativa, che non tiene conto degli effetti prospettici e delle ricadute sugli altri settori, a partire dalla Pa.
In attesa, speriamo fruttuosa, delle linee guida che potrebbero aiutare molto l’enforcement dell’art.33, senz’altro un passo avanti è stato compiuto, durante il passaggio parlamentare del provvedimento, per facilitare lo sviluppo di una tecnologia chiave come il cloud per la transizione digitale italiana. Con un contributo senz’altro positivo (rispetto al consumo energetico delle migliaia di data center oggi sparsi nella penisola) anche a quella ecologica. Un altro modo per far stare l’Italia sui binari del Pnrr che nelle due transizioni ha le principali stelle polari.