La riapertura dell’ambasciata emiratina in Iran è una soluzione di interesse davanti a dinamiche di forza maggiore. Per Abu Dhabi la stabilità e la distensione sono un valore in questo momento
Gli Emirati Arabi Uniti hanno dichiarato domenica 21 agosto che il loro ambasciatore in Iran, Saif Mohammed Al Zaabi, tornerà a Teheran “nei prossimi giorni”, più di sei anni dopo che il Paese arabo del Golfo aveva allentato i legami con la Repubblica islamica. All’inizio del mese era stato il Kuwait a riaprire ufficialmente i ponti diplomatici con Teheran.
La mossa è significativa, per quanto completamente in linea con le attività emiratine, che da tempo mirano a recuperare il rapporto con Teheran — nove mesi fa, in uno dei passaggi più importanti di questo percorso, il consigliere per la Sicurezza nazionale emiratino, Tahnoun bin Zayed al-Nahayan, visitò la capitale iraniana. L’obiettivo generale è “raggiungere gli interessi comuni dei due Paesi e della regione in generale”, ha dichiarato il ministero degli Esteri in un comunicato sulla riapertura dell’ambasciata.
Tutto si sposa perfettamente con il clima di distensione che da mesi e mesi sta caratterizzando la regione Medio Oriente e Nord Africa; clima che subisce forme di alterazione puntuali, a volte mosse dalle attività maligne dei Pasdaran e dei gruppi collegati, che per interessi ideologici ed economici sono avversi a questa détente.
Gli Emirati Arabi Uniti avevano ridotto i loro legami con l’Iran come conseguenza della rottura delle relazioni iraniane con l’Arabia Saudita, nel gennaio 2016. La mossa seguì l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran da parte di manifestanti iraniani dopo che Riad aveva giustiziato un importante chierico sciita.
A quei tempi i leader emiratino e saudita, Mohammed bin Zayed e Mohammed bin Salman (non ancora ruler ma in grado di influenzare completamente le politiche dei propri regni), cercavano un confronto ruvido con Teheran. A distanza di anni la politica aggressiva e belligerante (per procura) non ha funzionato troppo, e mentre Abu Dhabi riapre formalmente le relazioni, anche Riad sta intraprendendo un complicato percorso di dialogo — mediato dall’Iraq — con Teheran.
Dopo anni di astio su fronti diversi di rivalità geopolitica, gli Emirati Arabi Uniti hanno iniziato a riallacciare i rapporti con Teheran nel 2019, in un momento in cui l’uscita di Washington dal patto nucleare con l’Iran, il JCPOA, aveva portato diverse tensioni nella regione. E i Pasdaran ne avevano approfittato portando avanti la loro agenda destabilizzatrice anche compiendo attacchi nelle acque del Golfo, con i siti energetici sauditi finiti sotto i missili che gli iraniani forniscono ai ribelli yemeniti Houthi — che recentemente hanno colpito anche gli Emirati.
In questo momento, per bin Zayed questo clima caotico, insicuro e instabile altera profondamente gli interessi strategici che pianifica. L’obiettivo emiratini è consolidare la propria posizione di hub finanziario globale, di spingere le attività economiche attorno al mondo dei trasporti e della logistica internazionale, diventare un centro turistico mondiale. Tre intenti strategici che garantiscono una futuribile differenziazione dal mondo oil&gas, ma che sono inconciliabili con un quadro destabilizzato — e di coinvolgimento di Abu Dhabi in questa destabilizzazione. Per altro, l’emirato di Dubai — il centro del progetto di intrattenimento globale emiratino — è stato a lungo uno dei principali collegamenti dell’Iran con il mondo esterno.
Sotto quest’ottica distensiva pragmatica, gli Emirati hanno ripreso il dialogo tattico con la Turchia e con il Qatar, rivali interni del mondo sunnita. L’anno scorso l’Arabia Saudita, potenza musulmana sunnita (mossa da interessi simili e in parte forzata dalla scelta emiratina, il principale partner regionale di Riad) ha iniziato il percorso per migliorare i legami con l’Iran. Ci sono stati cinque cicli di colloqui diretti finora, tutti a Baghdad. Queste dinamiche sono più complesse di quelle con gli Emirati per ciò che rappresentano i due Paesi, poli del sunnismo e dello sciismo.
Tutto avviene mentre i Paesi del Golfo osservano gli sforzi dell’Unione europea — e di Stati Uniti, Russia e Cina — per rilanciare il JCPOA, che ritengono difettoso per non aver affrontato il programma missilistico iraniano e le attività di influenza regionale attraverso partiti/milizia senza scrupoli guidati dai Pasdaran. Davanti a una nuova intesa per far ricevere il Nuke Deal, la scelta della via del dialogo è ritenuta una via di soluzione davanti a dinamiche di forza maggiore.