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Gorbaciov non è voluto morire in autunno. L’ultimo capolavoro, per Riccardo Cristiano

Gorbaciov letto e capito come l’alternativa al “noi o loro”, la cultura dominante a destra e sinistra. Riccardo Cristiano lo ricorda così, quando si trovò a seguirlo da Mosca. Un racconto sospeso tra la Via Arbat, simbolo della riforma gorbacioviana, e la questuante del tempo a lui successivo

Il gelo ufficiale che arriva da Mosca è forse l’elogio migliore che quel regime potesse tributare a Michail Sergeevič Gorbačëv, spesso traslitterato anche come Mikhail Gorbachev o Gorbaciov. Seguendo la regola non specialistica lo chiameremo così, come tutti: Gorbaciov. Ma non c’è solo il gelo del Cremlino, mai così profondamente, irrimediabilmente se stesso. C’è anche il distinguo “specialistico”, che si vede di meno, ma c’è. La storia dei grandi è sempre la stessa: “lo è stato davvero?” Gli errori, i racconti magnificanti, l’omissione di tanti dettagli decisivi, non dicono forse il contrario? Ed è così, e c’è anche del vero. Ma Gorbaciov morendo nel pieno di questa vicenda terribile della guerra in Ucraina ci conferma che lui ha saputo parlare al mondo, dicendo la cosa che conta di più: basta seguire miti totali!

La differenza tra lui e la realpolitik vera – capitalista e quindi anche occidentale- sta nella differenza tra lui e il suo successore, Eltsin. Ma la differenza tra lui e l’altra realpolitik reale- collettivista e quindi anche sovietica – sta nella differenza tra lui e l’uomo che lo ha preceduto, Cernenko. Non ricordo se la celebre frase “il segretario è allettato per un fastidioso raffreddore” riguardasse Cernenko o Brezhnev. Ma la differenza tra Gorbaciov, Eltsin e Brezhnev ci parla abbastanza della sua vera dimensione umana e politica.

Chi, facendo molta fatica, resisterà al senso di fatica, al groppo interiore, ricordando l’uomo che lo ha preceduto e quello che lo ha seguito, a mio avviso capirà qualcosa di più di Gorbaciov. In questo la domanda che segna le ore della sua scomparsa, se il suo mito sia stato la solita “facile illusione dei superficiali”, a mio avviso trova la risposta più vera: il mito di Gorbaciov è il mito della speranza, che mai può essere solo luce, bellezza, grandezza. L’Unione Sovietica e il Pcus prima di Gorbaciov erano un sistema tanto oppressivo quanto fallito. Dopo sono diventati l’analogo opposto. Prima c’erano le dace degli uomini i del Politburo, poi i panfili degli oligarchi. Lui è morto in povertà, come vive la speranza.

Ma se dovessi dire chi è stato Gorbaciov per me, mi limiterei a riproporre la fotografia del suo celeberrimo colloquio con Giovanni Paolo II, quello che giunse a giochi ormai chiusi, ma che forse diceva al mondo che la speranza dipende da noi, da quel che facciamo e da quel che arriviamo a capire dell’altro. Quell’immagine ha chiesto ai fedeli dell’una e dell’altra fede di andare al di là del muro che vuole dividerci in figli del bene e figli del male.

La sua straordinaria parabola politica e umana ha tentato l’impresa più importante che si possa immaginare: superare il manicheismo politico, ideologico, culturale, e quindi quello che divide le civiltà tra buone e cattive. Gorbaciov è l’altra faccia dell’uomo rispetto a bin Laden: il paradigma del leader jihadista ci ha imposto di pensare “o loro o noi”, il paradigma di Gorbaciov è stato l’opposto, “noi e loro”. In questo i suoi errori, che i seguaci dell’idea “o noi o loro” ricorderanno copiosamente in queste ore, non vanno rimossi; è giusto riconoscerli, ammetterli. Chi crede che sia possibile un mondo di “noi e loro” e non di “noi o loro” non ha bisogno di eroi, di angeli, di leader senza macchia. Sarebbero leader irreali. Gorbaciov ha smontato una Chiesa perché credeva, non perché era un nuovo Profeta.

Non sono un sovietologo, né uno studioso di Russia, o di cultura slava. Non sono stato un cremlinologo, né un giornalista che può vantare, come tanti possono fare davvero, di averlo conosciuto. Sono solo un generalista che ha cominciato a occuparsi del mondo venendo inviato a seguire le vicende sovietiche per esigenze redazionali. L’ufficio Rai di Mosca era sotto pressione, io ero in una piccola testata della Rai e serviva coprire gli eventi moscoviti per offrire qualcosa di più.

Lì ebbe luogo un incontro di quelli che mi hanno formato, quello con Demetrio Volcic. Lui sì che potrebbe aiutarci a capire chi sia stato davvero Gorbaciov, e, cosa ancor più importante, cosa ci dica la sua scomparsa in questo preciso momento. Potessi, gli chiederei se Gorbaciov poteva fare qualcosa di più importante, in un frangente come questo, rispetto al morire. Quasi dicesse a tutti noi che “anche la Federazione Russa è in pericolo, messa a rischio dalle eterne visioni imperiali che possono arrivare fino a Cernenko pur di resistere. Ma anche un nuovo Eltsin sarebbe esiziale e non solo per i russi”. È questo il messaggio che Gorbaciov ha ritenuto di inviarci dall’ospedale dove è spirato? Siccome Demetrio Volcic non c’è io non so a chi chiederlo. Ma in queste ore ricordo quei giorni e il Gorbaciov che ascoltando lui ho provato a capire. Una frase soprattutto mi torna alla mente: “Prima non sapevamo nulla ma capivamo tutto, ora sappiamo tutto ma non capiamo nulla”. Il passaggio dall’epoca del Pcus all’epoca nuova per Demetrio era qui. In mezzo c’è la trasparenza. Che non vuol dire fabbricare santini, ma portare i popoli dentro i processi della storia, non riservarli a impenetrabili élites.

Così tra i capolavori di Gorbaciov io annovero anche la sua morte. E mi ricordo della via Arbat. Cosa voglia dire per l’uomo, per tutti gli esseri umani, la libertà, l’ho capito lì. La Via Arbat era una strada di Mosca dove tutti i giornalisti sono passati, mille racconti sull’epoca gorbacioviana sono stata scritti da lì. In quella città immersa nel mito imperiale, con i suoi viali a mille corsie ma senza macchine, senza motociclette, senza altro che infreddoliti pedoni, tutti andavamo a Via Arbat. Di corsa, testimoni della rivoluzione! Era lì, bastava scendere in strada, chiamare -potendo- un taxista e farsi accompagnare. A Via Arbat c’erano delle bancarelle, le famose matrioske, qualche sussurrata ironia, qualche maglietta, ma soprattutto un commercio, un “mercato” alla luce del sole, o per meglio dire all’ombra delle nuvole. In quella stradina chiusa al traffico (in realtà tutte lo erano, non c’era traffico a Mosca, solo le auto nere dei gerarchi) si facevano ritratti, si vendeva, si parlava! Tutto questo era sopportato dal “sistema Pcus”, a malincuore, ma era sopportato.

La libertà cominciava e finiva a Via Arbat? All’inizio c’era il famoso Restaurant Praha, poi si entrava nella Repubblica dei ragazzi della Via Arbat. E Mosca era sempre grigia, ma finiva il grigiore. Il bivio che non abbiamo capito era questo. Il problema non era se la riforma di Via Arbat fosse un’illusione, uno specchietto per le allodole, un’isola falsa in un mondo immodificato. Il problema era il colloquio che Via Arbat voleva che potesse avvenire. Era Russia, ma una Russia non imperiale, quella che si affacciava come interlocutrice del mondo, dell’Europa, dalle bancarelle profondamente russe della Via Arbat.

Quell’anziana signora con un salame in mano, nel gelo moscovita, che sperava di poterlo vendere prima di sera è un’altra immagine che custodisco con gelosia, opposta. È l’ultima immagine che ho di Mosca, prima di partirne al termine della mia ultima trasferta. Lei stava lì, vicino alla fermata della metropolitana che porta alla Piazza Rossa, con il suo salame in mano, assediata dal freddo pungente. Da quante ore era lì? Tutti parliamo di espansione della Nato a est come del peccato mortale dell’Occidente. Per me, molto più dell’ espansione a est della Nato il vero errore “occidentale” è stato questo. Il rublo era carta straccia, qualcuno ha pensato un piano Marshall per Mosca? Gli oligarchi, allora chi sono? Forse io non lo so, ma la morte di Gorbaciov mi conferma che capire è sempre la cosa migliore.


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