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Iraq, il rischio regionale dietro al caos di Baghdad

Lo stallo politico in Iraq ha ragioni collegate all’influenza iraniana nel Paese. Il rischio è che dalle manifestazioni di protesta a Baghdad si aprano scenari con ricadute regionali

C’è chi mangia sugli scranni, chi sdraiato a terra si fa un selfie, chi ha portato una mucca al pascolo sui giardini del palazzo parlamentare: l’assalto all’assemblea irachena dei manifestanti sadristi restituisce in questi giorni le immagini di un film surreale. Ma ci sono 125 feriti e un sit-in permanente circondato dalle forze speciali, nonché un rischio che la destabilizzazione di Baghdad crei conseguenze a impatto regionale.

Nella capitale irachena, per la seconda volta nel giro di una settimana, è andata in scena la protesta organizzata da Moqatad al Sadr. Il chierico sciita leader di un movimento populista ha vinto le ultime elezioni ottenendo 73 seggi e la maggioranza relativa, tuttavia in 10 mesi non è riuscito – e per limite, e per l’opposizione – a costruire una coalizione che potesse sostenere un governo.

Risultato: con un atto di protesta ha chiesto ai suoi legislatori di dimettersi e innescato le manifestazioni. Le dimissioni dei sadristi hanno lasciato spazio al cosiddetto Quadro di Coordinamento, che è un raggruppamento politico che tiene insieme tutte le componenti sciite e pro-iraniane (sono molto influenti, con prolungamenti all’interno dei gangli del Paese e sono supportate da componenti militari, milizie integrate nel comportato difesa e sicurezza).

Al Sadr, con l’occupazione del parlamento, vuole evitare, con l’ostruzionismo fisico, che l’assemblea voti un premier scelto dalle opposizioni: Mohamed Shia Al Sudani. Al-Sudani, ex ministro, è una figura molto vicina a Nouri al Maliki, già primo ministro, sul cui governo pesano accuse di settarismo sciita. Maliki la scorsa settimana si è fatto fotografare in strada armato di fucile d’assalto mentre i sadristi manifestavano. Un messaggio chiaro che racconta il livello che il confronto sta raggiungendo.

Da quando ha iniziato il suo esperimento con la democrazia, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, l’Iraq è stato funestato da divisioni politiche e da uno Stato debole e frammentato. Il sistema politico è stato concepito sulla base di una condivisione settaria del potere, ma porta a continui scambi tra fazioni che si contendono i posti di comando del governo e le fonti di patrocinio. La discordia tra Sadr e i suoi rivali sottolinea le crescenti spaccature all’interno dei gruppi.

La crisi politica si sta manifestando con l’aumento delle pressioni sociali. L’Iraq sta mettendo in campo centinaia di migliaia di laureati ogni anno, che dipendono dai posti di lavoro statali, il principale datore di lavoro, sempre più incapace di tenere il passo con la domanda. Gli alti prezzi del petrolio hanno offerto un po’ di sollievo allo Stato, che due anni fa faticava a pagare gli stipendi del settore pubblico. Ma molti sono pessimisti sulle prospettive a lungo termine del Paese.

Tutto questo potrebbe persino ottenere il sostegno del movimento Tishreen, ossia le migliaia di manifestanti di diversa provenienza che si sono riuniti nell’ottobre 2019 per chiedere che il governo si occupi della disoccupazione, metta fine alla corruzione, fornisca elettricità e ponga fine al potere sfrenato dei gruppi armati legati all’Iran. 

L’instabilità irachena è infatti anche il frutto di un certo percorso esterno. Da anni il Paese è diventato via via più succube dell’influenza dei partiti/milizia collegati all’Iran – soprattutto al mondo dei Pasdaran. Spesso l’Iraq è stato usato come terreno di sfogo delle tensioni tra la Repubblica islamica e l’insieme di nazioni che Teheran considera ostili (e che considerano ostile Teheran), ossia i regni sunniti del Golfo, Israele e gli Stati Uniti.

Attualmente questi due fronti sono ai ferri corti a causa della mancata ricomposizione dell’accordo Jcpoa, che congelava il programma nucleare iraniano in cambio del sollevamento delle sanzioni. L’intesa, siglata dal 2015, è stata messa in crisi dal ritiro dell’amministrazione Trump nel 2018, ma anche l’amministrazione Biden ha scelto di tenere fermo il pacchetto di misure sanzionatorie, anche se ha intavolato delle (finora inefficaci) trattative.

Una delle ragioni di sfiducia nei confronti dell’Iran, mossa soprattutto dagli attori regionali, sta nell’influenza che la componente teocratica di Teheran (soprattutto quella militare) muove all’interno del Medio Oriente proprio attraverso quelle milizie – collegate per ragioni ideologiche, ma anche finanziate col fine di creare canali di ingerenza in altra Paesi. Ne sono esempio il Libano, la Siria, o ancora l’Iraq.

Al Sadr, uno sciita che prima ha avuto anch’egli legami con Teheran, sostiene che questa presenza iraniana in Iraq ha tolto aliquote di sovranità al Paese, e su questa richiesta di indipendenza ha basato la sua piattaforma politica. Alla pari, chiede che gli Stati Uniti (ossia i militari americani) escano dalle basi irachene. È un sentimento popolare, quello della ricerca di libertà e indipendenza, che è molto condiviso e che in passato ha già creato manifestazioni.

Si tratta della sovrapposizione di questioni di carattere internazionale (il ruolo dei satelliti iraniani è considerato uno degli elementi centrali nella destabilizzazione securitaria del Medio Oriente) e sentimenti e dinamiche nazionali irachene. Lo stallo che si è creato è molto complicato anche per questa sovrapposizione. Dalla crisi in Iraq potrebbero aprirsi scenari in ricaduta regionale.

Anche perché l’attuale governo, guidato da Mostapha al Kadhimi, e sostenuto da al Sadr, è stato molto attivo nel costruirsi come ponte di dialogo tra i due poli geopolitici islamici, Iran e Arabi Saudita. Funzionari da Teheran e Riad hanno avuto colloqui a Baghdad, rompendo lo schema dell’inimicizia esistenziale che dura da decenni. Il fatto è che – come nel caso della ricomposizione del Jcpoa – ci sono all’interno dell’Iran componenti che all’instabilità preferiscono il disequilibrio costante, come tornaconto di interessi.



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